L’uomo d’acciaio

Regia: Zack Snyder
Anno: 2013

Sul pianeta Krypton, esaurite le risorse naturali, incombe la distruzione cosmica. Lo scienziato Jor-El propone la ricerca di nuovi avamposti, mentre il generale Zod prende il potere con la forza, in cerca del codice genetico dei nascituri artificiali di Krypton, unico modo per scongiurare l’estinzione della civiltà. Ma il prezioso crogiolo è riversato tutto nel neonato figlio di Jor-El, inviato sulla Terra prima della catastrofe e presto cresciuto con forza e poteri sovrumani. Una volta adulto, Clark Kent dovrà fare i conti con la sua identità aliena, fronteggiando il ritorno di un nemico mai sconfitto.

Il supereroe del cinecomic americano più recente è al centro di una contraddizione ineludibile. Sponda Dc o Marvel, che si tratti del Batman versione retirement in bastone e vestaglia di Il cavaliere oscuro – Il ritorno (“The Dark Knight Rises”, Christopher Nolan, 2012) o del Tony Stark in preda a crisi di panico di  Iron Man 3 (Shane Black, 2013), salta all’occhio una sproporzione evidente.

Quella tra lo statuto eccezionale, l’inusitata forza e potenza di mezzi a disposizione (naturali o artificiali) e la profonda fragilità interiore, lo smarrimento identitario ed esistenziale che questi personaggi sperimentano. Una tensione schizofrenica che certo non può non interessare Superman, mito pop per eccellenza.

Dopo la falsa partenza del misconosciuto Superman Returns (Bryan Singer, 2007), la sfida viene ora raccolta con L’uomo d’acciaio, “Man of Steel”. Zack Snyder poteva essere l’uomo giusto per rileggere l’inossidabile Superman nell’ottica di una sensibilità lacerata, scissa tra umanità e origini aliene, padre naturale (Russell Crowe) e padre adottivo (Kevin Costner), passato sconosciuto e futuro all’insegna dell’incertezza, senza tralasciare il versante spettacolare.

Nell’ottimo Watchmen (2009) infatti, tratto dal graphic novel di Alan Moore, il regista già imbastiva un cupo e crepuscolare discorso sulla crisi (fine?) del supereroe, maschera svilita, invecchiata, psicotica e impotente in un mondo di livide macerie umane e urbane.

Illustrando in particolare i dilemmi morali di un’eccezionalità onnipotente e semi-divina come quella del Dr. Manhattan, entità idistruttibile in bilico tra impulso salvifico e brutalità reazionaria, fedeltà alla causa umana e nichilismo disinteressato.

Temi che in L’uomo d’acciaio perdono decisamente vigore, lasciando spazio all’ipercinetismo forsennato del regista. Finendo per travolgere i buoni assunti di partenza, opera del tandem Christopher Nolan (produzione e soggetto) – David S. Goyer (sceneggiatura).

L’inconfondibile Nolan touch segna il film fin dall’incipit. Nella forma, innanzitutto: il lavoro sull’extradiegetico, con i loghi “in acciaio” delle case di produzione, l’accesso diretto alla narrazione, a “schermo pulito”, senza credits introduttivi (impiegati invece da Snyder con inventiva e piena valenza significante in Watchmen), con il titolo che compare solo al termine del film. Poi nello stile e nei contenuti, con la tonante partitura di Hans Zimmer  e il tipico prologo adrenalinico nolaniano, qui misto di action, epica e fantasy.

Alcuni elementi sono ben introdotti: il dramma interiore del giovane Clark Kent, solitario vagabondo, straniero in terra straniera, figlio adorato ma orfano di affetti e identità. Il contrasto tra libero arbitrio e ruolo e destino fissati a priori. Incarnato rispettivamente nelle figure di Superman e del generale Zod (Michael Shannon), spietato guerriero “spartano” per nascita, fedeltà alla patria e obbligo morale come per il Leonida di 300 (2006).

Purtroppo, tutto diventa presto schematico. L’ambiguità, la dialettica tra figure paterne e la ricerca delle origini dell’eroe si risolvono troppo sbrigativamente. Basta uno spiegone del fantasma/ologramma paterno e tutto si sistema. Clark può tornare sorridente come un fanciullo ad abbracciare la madre in toni quasi soap-opereschi.

Henry Cavill, aitante e pur simpatico, non sembra mai veramente aderire alla natura tormentata del personaggio (nota di merito invece per la frizzante Lois Lane di Amy Adams). Snyder ci crede ancora meno, quando lo fa rimbalzare come una palla nella sua prova-costume in volo (ancora peggio dei saltelli di Hulk nel deserto nel film di Ang Lee, 2002) e ci mostra la soldatessa arrapata di fronte ai muscoli scolpiti nella tuta.

E il conflitto di identità? Nel finale ci si premura soltanto di sottolineare come Superman, lo dice lui stesso, in fondo non sia altro che un bonario e genuino americano della provincia del Kansas. Cresciuto tra l’altalena in giardino e i predicozzi paterni sul retro di un pick-up. E quando non è impegnato a salvare il mondo, si scola una Bud davanti alla partita di football. Quindi, militari e cittadini, sono un americano doc come voi, non abbiate paura, tutto andrà per il meglio…

Come accade per Superman, anche allo spettatore viene in definitiva da chiedersi chi sia il vero padre dietro L’uomo d’acciaio. Se il “direttore generale” Christopher Nolan o il regista effettivo Zack Snyder.

La sensazione è che quest’ultimo, messa a segno qualche mirabolante sequenza d’azione, abbia in gran parte disperso il potenziale della storia.

Film imperdibile solo per i fedelissimi del personaggio. Per tutti gli altri, un onesto e movimentato blockbuster estivo.