Di nuovo in gioco

Regia: Robert Lorenz
Anno: 2012

A distanza di un anno dall’uscita di J. Edgar – pellicola sulla vita e sulla carriera di J.Edgar Hoover, nel quale ha diretto un controverso Leonardo di Caprio nei panni del capo dell’FBI – e a vent’anni esatti dall’ultima volta che si è trovato davanti alla cinepresa solo come attore e non anche come regista (Nel Centro del Mirino di W. Petersen, 1993), Clint Eastwood torna nelle sale con Di Nuovo in Gioco diretto dall’amico Robert Lorenz.

Smentite le voci di un ritiro dalle scene – e forse con un ghigno di soddisfazione sui visi di coloro che aspettavano che il grande vecchio cominciasse (finalmente) a perdere colpi e la smettesse di inanellare un successo dietro l’altro – Di Nuovo in Gioco riporta sullo schermo un Clint Eastwood – che avevamo lasciato vedovo, malato e armato di pistola a dito in Gran Torino (2008) – in grande spolvero che interpreta alla perfezione Clint Eastwood. E ci riesce sempre tanto bene.

Ad ottantadue anni suonati il texano dagli occhi di ghiaccio sembra non avere la minima intenzione di lasciare il passo alle nuove generazioni e, in quest’ultimo lavoro, mostra al pubblico un’ulteriore faccia della maturità di un uomo ancora in grado di fare il suo mestiere, di essere padre e di dire la sua sulla vita, sulla morte e sull’amicizia.

Temi, questi, assai cari ad Eastwood che – a cominciare dallo “spietato” William “Will” Munny di Unforgiven (1992), passando per l’anziano astronauta Frank Corvin di Space Cowboys (2000), per Franky Dunn, allenatore e manager di boxe lacerato di fronte alla scelta estrema di Million Dollar Baby (2004) ed, infine, per il reduce Walt Kowalski di Gran Torino – ha trovato la formula vincente per i suoi continui successi. Forse troppo.

Confezionando personaggi che solo lui avrebbe potuto interpretare (per prestanza fisica, per quell’espressività con e senza cappello tanto cara a Sergio Leone), Eastwood ha dato un significato differente alla parola anzianità, portando sullo schermo negli ultimi anni un prototipo di uomo che, per quanto difficilmente possa calzare addosso alla maggior parte degli attempati signori di mezzo mondo, riesce, comunque, a lasciare il segno e ad essere, al contempo, abbastanza credibile.

Di Nuovo in Gioco si inserisce in quel filone cinematografico tanto caro al pubblico USA che coniuga sport e dramma (tra tanti: Il Migliore, Berry Levinson, 1984 o Jerry Maguire di Cameron Crowe del 1996) e racconta la storia di Gus Lobel (Eastwood), scout di talenti nel mondo del baseball professionistico a stelle e strisce, che a causa dell’età avanzata e per gravi problemi di vista, si vede costretto, suo malgrado, a servirsi dell’aiuto della figlia Mickey, interpretata dalla brava Amy Adams (Il Dubbio, di John Patrick Shanley, 2008).

La vicenda, che ruota sul difficile rapporto padre-figlia, porta Gus e Mickey in viaggio dalla Georgia al North Carolina per visionare un promettente giocatore.
Il viaggio, come esperienza e convivenza forzata, viene visto da Lorenz come occasione per appianare incomprensioni, abbandoni e delusioni di tutta una vita.
Genitore e figlia si muovono agevolmente dentro un copione studiato alla perfezione per entrambi, dove alla drammaticità di alcune scene realmente toccanti, si inframezzano, tra i due, battute telefonate molto gustose.
Per movimentare un po’ la storia e il divario tra il vecchio genitore e la figlia che mette a repentaglio la sua carriera per aiutare il padre, si inserisce la liaison tra Mickey e il giovane (nonchè scout concorrente di Gus) Johnny Flanagan, interpretato da Justin Timberlake (Alpha Dog di Nick Cassavettes, 2005). Nel cast anche un inossidabile John Goodman (l’indimenticabile Walter Sobchak de Il Grande Lebowsky dei fratelli Cohen, 1998) nel ruolo di Pete Klein, amico e capo di Gus.

Il film è l’opera prima di Robert Lorenz che, lasciati i panni del produttore e socio di Eastwood alla Malpaso Production, riporta sullo schermo il vecchio Clint in una pellicola che dovrebbe sapere di buono. Di sentimenti. Di classico del cinema americano in cui lo sport, metafora della vita, è il viatico per comprendere i veri valori. Rassicurante come la torta di mele lasciata a raffreddare sul davanzale. Dovrebbe.

Eastwood, però, è intrappolato da anni in un personaggio che si ripete in ogni film che lo vede protagonista. Cambia la trama, cambiano le circostanze ma, a conti fatti, ci si trova sempre di fronte alla stessa persona.
Padre o marito burbero dal passato tormentato che ha abbandonato, o si è allontanato, dalla famiglia (sempre, però, per ragioni sapientemente costruite per enfatizzarne il carattere di duro-ma-giusto) e afflitto da miopie generazionali, a volte incomprensibili.
Da una parte, il vecchio con le sue convinzioni incrollabili (ma errate) e, dall’altra, il giovane – figlio, figlia o allieva che sia – il più delle volte più maturo ed elastico mentalmente, che lo fa rinsavire.
Trama e dialoghi conducono inevitabilmente all’ammissione/espiazione degli errori fatti, al ricongiungimento tra l’anziano e il giovane e al finale dolce-amaro che lascia lo spettatore sempre con la stessa domanda. Ma c’era bisogno di tutto questo? Non bastava una telefonata?
Accadeva nel lontano 1986 in Gunny, ne La Recluta del 1990, nel 1992 con Gli Spietati, passando, via via, per Potere Assoluto (1997), Million Dollar Baby (2004) e Gran Torino (2008). Sempre lo stesso personaggio. Sempre la stessa storia.

Che Eastwood fosse un’icona del cinema è cosa nota. Che fosse più buon regista che attore anche. Che l’apice della carriera l’avesse raggiunto con Million Dollar BabyGranTorino è confermato dai quattro Oscar presi per il primo e dall’innumerevole quantità di premi ricevuti in tutto il mondo per entrambi. Che ci fosse bisogno di ulteriormente confermare tutto questo con un film che nulla aggiunge e nulla leva a quanto sopra, no.

Sia chiaro. Per chi non ha preconcetti, il film va visto perchè è ben realizzato, ben interpretato, ha una fotografia che ricorda tanto i quadri di Norman Rockwell e il vecchio Clint, checchè se ne dica, sa fare il suo mestiere.
Due ore di cinema USA classico, dai buoni sentimenti e che davvero profuma di torta di mele. Per chi, invece, pretende da Eastwood un’alternativa all’affermazione fatta da Sergio Leone tanti anni fa, il film potrebbe risultare quasi un deja-vu. Con l’unica differenza che almeno qui, ogni tanto, il vecchio Clint ride.

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