Regia: Aurora Guerriero
Anno: 2012
Mosquita y Mari di Aurora Guerriero è un film delicato, che di cose delicate racconta, con strumenti formali sensibili agli scarti minimi, e con un atteggiamento stilistico che rifugge dalla declamatorietà autocompiacente.
Non c’è molto da dire per riassumerne il contenuto narrativo, essendo questa un’opera che più che raccontare evoca, suscita aspettative, lascia presagire conclusioni che non narra.
Non esiste una vera e propria trama, se con questo termine intendiamo la narrazione di una serie concatenata di eventi più o meno eclatanti, più o meno prevedibili; qui si procede per lenti sviluppi emozionali, narrando di variazioni graduali e minute, che sono tutte interne ai personaggi.
Yolanda è una studentessa e figlia modello di una coppia di emigranti chicani interpretata da Fenessa Pineda (Pandemic – Il virus della marea, un TV movie del 2007 diretto da Armand Mastroianni).
I genitori investono tutta la loro esistenza negli studi di questa figlia, a cui intendono garantire un futuro migliore e una maggiore integrazione nella difficile società americana anche a costo di responsabilizzarla in maniera forse eccessiva.
Mari, ovvero Venecia Troncoso (The Chosen, di Tod Ciaciuch, 2008; Maddoggin’, di Terence Heuston, del 2011), invece è bellissima e molto discola, proveniente da una famiglia problematica, in cui latita la figura paterna, si rivela da subito incline a comportamenti spregiudicati e un po’ al limite (la possiamo vedere fumare marijuana nei bagni della scuola, deciderà di prostituirsi per rimediare i soldi dell’affitto ecc.).
È questo il personaggio più forte del film, ampiamente sviscerato nella sua problematica dimensione psichica e che va in contro a un processo di maturazione crudele, in cui l’innocenza e la dolcezza si perdono pezzo per pezzo, sino all’estremo della perdita finale (la già citata scena in cui Mari accetta di prostituirsi).
Tra le due, a partire da una certa diffidenza iniziale, si sviluppa per piccoli gradi un sentimento mobile, che dalla semplice amicizia, e attraverso quel legame di solidarietà segreto che può appartenere solo al simile per il proprio simile, sembra voler approdare a qualcosa di altro. Ma di questo il film non dice, dal momento che la narrazione del graduale processo mutativo da parte della Guerriero si ferma proprio sul crinale estremo di quel piccolo precipizio che è il passaggio dall’amicizia all’amore, a quel momento effimero che precede il cambiamento definitivo in cui le cose ormai non sono più quelle di prima, ma ancora non sono propriamente quelle di dopo.
Tutto il film è giocato sul racconto per immagini dei microsismi emozionali che si generano nell’animo delle due protagoniste nel corso di questo progressivo e reciproco avvicinamento, sulla messa in rappresentazione delle resistenze di ordine culturale e socio-econimico che questo neonato legame incontra nei vari contesti dell’agire delle protagoniste (famiglia, comunità sociale di appartenenza, scuola, ecc.).
Il discorso della Guerriero è permeato da una sotterranea riflessione polemica sulla società della discriminazione razziale ed economica, una corrente carsica amareggiata e rabbiosa, che non riaffora mai in maniera esplicita in superficie, ma che promana sotterraneamente dagli atteggiamenti dello stile, dalla messa in immagine, perfino dagli arredi di scena.
Mi sembra interessante la strategia espositiva di questo lavoro che, dovendo raccontare la progressione dei sentimenti reciproci delle due ragazze, lo fa evitando i punti esclamativi e il fraseggio roboante, scegliendo di dire le cose quasi sottovoce, attraverso la valorizzazione di quei gesti minimi, altrimenti poco significativi, che assumono nell’ economia psicologica delle due amiche, un valore enorme. È così che riti semplici del quotidiano, come una passeggiata fianco a fianco, o mano nella mano, mangiare un gelato o andare sulla bici in due, grazie al trattamento formale cui li sottopone la Guerriero, divengono gesta quasi epiche, una sorta di narrazione mitica che procede per immagini (perchè mitica è nell’animo delle protagoniste, che costruiscono il loro primo amore, mito personale nell’esistenza di chiunque).
La confidenza, la complicità e la reciproca fiducia tra Mari e Yolanda-Mosquita si costruiscono attraverso piccoli atti, minime variazioni e atteggiamenti del corpo poco evidenti, in alcune belle scene dal tempo sospeso, in cui cessa il suono diegetico, e con esso il tempo normale del film, e nelle quali veniamo trascinati da un tema musicale sognante e progressivo di sintetizzatori che si intrecciano in crescendo ariosi.
In questi frangenti i ricorrenti slow-motion voluti dalla regista conferiscono una sontuosità quasi eroica all’agire delle ragazze, attingendo a quell’immaginario tutto filmico che ci ha abituati a vedere al rallenty le scene a grande impatto drammatico, come le morti eroiche di eroi super e non, le azioni di battaglia, i momenti decisivi dei trionfi o delle catastrofiche sconfitte.
Queste dilatazioni del tempo spingono lo spettatore a collocare le piccole azioni delle protagoniste su un piano temporale che è tutto emozionale e svincolato dal tempo reale (reale nella temporalità della storia, ovviamente). Secondo questa logica dell’interiore, allora, il gesto semplice del prendersi per mano, tanto per fare un esempio, può perdere, la sua durata normale, quella necessaria al corpo per compiere l’azione, e acquisirne una che dipende unicamente dall’importanza emotiva che il gesto ha per le ragazze, in grado di durare tanto più tempo quanto più grande è il sentimento che suscita.
È all’interno di questa epica minore, del quotidiano, che si contestualizza anche l’uso dei primi e primissimi piani, sempre molto intensi in questo film, intesi a manifestare la dimensione del sentimento. Gli sguardi nerissimi e profondi delle ragazze, specialmente quelli di Yolanda che tra le due manifesta un temperamento più emotivo, divengono allora una porta aperta sugli smarrimenti delle giovani anime, su quelle tempeste emozionali che sovente la recitazione antiteatrale e naturalissima omette di porre in rappresentazione, affidandosi all’obiettivo indagatore e mobile della Guerrero.
Da questa predilizione per l’ovale del volto, luogo filmico dove maggiormente si ritrova l’espressione degli aspetti psicologici ed emozionali, a discapito di quella per il corpo, possiamo intuire chiaramente l’atteggiamento de-carnalizzato, la qualità puramente eterea, del sentimento ritratto in questo film, che nulla concede all’amore fisico e materiale, se non una pudica scena di sfioramenti: tutto si concentra sulla sfera emotiva e spirituale.
Nel complesso spicca la bella qualità delle immagini, che poggia su cromatismi accesi, squillanti, su un senso luministico tipicamente latino, solare e quasi abbacinante, che la regista sposa con una visione leggermente blurred, sfumata e quasi fiabesca del suburbio metropolitano e che forse risente dell’influenza di certa estetica da videoclip musicale tipica della variante latina del genere hip-hop.
Un film estremante piacevole, che mi sento di sconsigliare agli amanti del cinema d’azione o ai fan delle trame particolarmente complesse, ma che sarà certamente in grado di emozionare in maniera discreta ed evocativa. Mosquita y Mari si rivolge ad un pubblico vasto ed eterogeneo, etero e non, che sia in grado di cogliere la delicatezza formale con cui il sentimento è rappresentato in questo lavoro tutto al femminile.