Viva l’Italia

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Regia: Massimiliano Bruno
Anno: 2012

Generalmente si valuta un film per quello che ti lascia dentro.
Una sorta di dote che rimane impressa nello spettatore anche a distanza di anni. Purtroppo (o per fortuna) è caratteristica di poche, pochissime pellicole.

Il film di Massimiliano Bruno (Nessuno mi può giudicare,  2011) è destinato a lasciare ben poco. Forse niente.

Partendo da una caricatura (fin troppo cruda) dei principali difetti del nostro paese, inanella una serie di gag e parodie che, troppo spesso, sfociano inesorabilmente nel ridicolo. L’impressione è che tutto questo accusare e sentenziare sia troppo fine a se stesso.
Per carità il film è ben confezionato, anche se un osservatore attento (ma non troppo!), tolti fiocchi e carte colorate, capirà immediatamente di trovarsi di fronte ad una scatola vuota.

Quello che resta è piuttosto una sensazione di fastidio.

Associare politici ad escort o il mondo della sanità a medici corrotti o le grandi aziende multinazionali a covi di raccomandati, fino al culmine in cui si coniuga il mondo dello spettacolo ad una cerchia chiusa di omosessuali e ragazze sempre pronte ai facili compromessi, è davvero troppo, troppo semplice e semplicistico.
A questo ci pensano già i quotidiani, i telegiornali e di questi tempi anche i tribunali.

Quindi (come diceva un noto personaggio dello spettacolo) la domanda sorge spontanea: “c’era proprio bisogno di farne anche un film?”

Può darsi, ma a mio avviso il risultato è la solita occasione sprecata.
L’idea di fondo poteva essere un buon trampolino di lancio per toccare con eleganza e sarcasmo problemi e difetti, non solo dell’Italia, ma anche delle famiglie italiane. Senza necessariamente puntare il dito verso qualcosa o qualcuno.
Il falso cinismo presente nella pellicola ben presto si trasforma in un pretesto per facili battute e pensieri non più profondi di un bicchiere d’acqua (finale compreso).

La trama dunque è modesta. Un politico (Michele Placido) corrotto, bugiardo, ladro, padre padrone della peggior specie e marito infedele, a causa di un forte shock (da vedere) subisce una sorta di conversione. La sua incapacità di mentire, dovuta ad una temporanea demenza, innesca una serie di siparietti tra il comico e il surreale che sfociano in un lieto fine che ahimé di lieto, avrebbe ben poco.

E quindi il figlio scemo (interpretato dal sempre bravo Alessandro Gassmann) direttore del personale di una grande azienda (grazie ai favori del padre) ne diventa ovviamente l’amministratore delegato, dai sani principi e dalle grandi doti imprenditoriali.
La figlia (Ambra Angiolini) da scemetta incapace (con ridicoli difetti di pronuncia), nonché donna di facili costumi, diventa la regina del bon ton e grazie ad un super corso di dizione, diventa pure una bravissima attrice.
Il terzo figlio (Raoul Bova, poco credibile) da medico eticamente corretto, si trasforma nel duro e cinico (ma anche lui sembra non crederci molto!) vendicatore. Capace di denunciare il suo superiore (Nicola Pistoia) che ovviamente è un primario corrotto e antipatico.

Troppo banale? Sì, ma non è tutto.

Per incattivire ancora di più l’ignaro spettatore si toccano argomenti per i quali ogni cittadino Italiano ha già il sangue abbastanza avvelenato. Per questo motivo disturbare una palazzina crollata presso l’Aquila, solo per dire: “Ho preso le mazzette e questo è il risultato” risulta eccessivo e forzato.
Tutti siamo già al corrente dei mali di questo laido e connivente sistema, che tramite la corruzione (soprattutto nel campo edilizio) ha stravolto e mutilato il nostro paese.

Quindi in questo contesto risulta solo una furbata (mal congegnata) per strappare due mezze lacrime laddove purtroppo di lacrime se ne sono già versate tante e ancora se ne continueranno a versare.
Ecco! Forse il problema del film è proprio questo: l’aver sbagliato del tutto i tempi e i toni. L’aver intrapreso la strada della demagogia quando (e dove) non serviva.

Anche il passaggio in cui (sulle note di Italia canzone inno del compianto Mino Reitano) il politico furbetto attraversa la guerriglia urbana per uscirne migliorato e purificato è di dubbio gusto. Metafora interessante ma surreale ogni oltre limite.
Inevitabilmente quindi, i momenti commoventi, si trasformano troppo presto in sentimento di ostilità e pessimismo.

Perché vederlo dunque?

Forse proprio per capire che l’Italia non è solo questo e per comprendere che siamo noi italiani, troppo spesso, i primi a dimenticarcelo.

A parte una manciata di battute comiche dell’esperto e navigato Michele Placido resta però poco altro.

In conclusione, per chi volesse gustarsi un vero film comico con richiami e rimandi ad argomenti cari al nostro Massimiliano Bruno (corruzione, stato padrone e rapporti familiari) consiglio di recuperare I Tartassati del 1959 diratto da Steno (con Totò e Aldo Fabrizi).

Il buon cinema Italian Style si può ancora fare (e in alcuni casi si fa) senza scivolare in mezza comicità (demenziale), mezza falsa politica (da bar) e, illusorio, mezzo ottimismo (da soap opera), tutte caratteristiche largamente presenti nel film di Massimiliano Bruno.

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