Regia: Giulio Manfredonia
Anno: 2012
A un anno di distanza dal precedente Qualunquemente (Giulio Manfredonia, 2011) , Cetto La Qualunque ritorna per un progetto più ambizioso del semplice seggio comunale di Marina di Sopra: il Parlamento. Suoi rivali nell’impresa altri due grotteschi figuri di un’Italia vittima del suo stesso gioco machiettistico: Frengo Stoppato e Rodolfo Favaretto. Chi dei tre conquisterà l’agognata poltrona di deputato? Chi approderà finalmente a quel paradiso di immunità e privilegi incondizionati che hanno come unico prezzo un clientelismo politico senza sconti?
Dopo il fallimento della sua giunta calabrese, Cetto La Qualunque viene incarcerato per collusione con la mafia. Contemporaneamente a Brachetto, poco ridente e molto razzista cittadina del nord Italia, Olfo inseguendo il suo sogno secessionista e filo-austriaco, viene arrestato per traffico di clandestini. Frengo, invece, abbandonato il buen retiro sudamericano, si ritrova in galera per possesso di sostanze stupefacenti. Coup de théâtre, i tre vengono subito liberati. E non solo.
Complice il sottosegretario (Fabrizio Bentivoglio), Cetto, Olfo e Frengo sono accolti con tutti gli onori a Roma per assumere la carica di deputati. Carica, comunque, non scevra di compromessi, maneggiamenti e congiure di palazzo. Come si adeguerà la politica romana alla presenza dirompente dei tre candidati? Soccomberà o li riassorbirà senza danno? E la Chiesa, potere religioso e secolare mai disgiunto, si lascerà convincere da Frengo ad attuare un radicale rinnovamento?
Manfredonia (Se fossi in te, 2001; È già ieri, 2004) ci riprova. Ci riprova con Antonio Albanese (Uomo d’acqua dolce, 1996; Questione di cuore, 2009), coi suoi personaggi, con il ritratto, oggi più che mai premonitore, di un Paese alla deriva legale e diplomatica. Ma, a differenza del film precedente, incappa nel classico errore da sequel: sfruttare i meriti del primo episodio per trascinare, però, le vicende, inseguendone soltanto la risata, la battuta facile, la benevolenza di un pubblico che ha voglia di divertirsi e non pensare. E la storia ne soffre, soprattutto nella misura in cui, paragonata a Qualunquemente, tralascia il vincente filo conduttore di un’ironia amara sulla realtà politica italiana, preferendole gli abusati cliché comici sull’omosessualità, le droghe leggere e gli adulteri. Sviluppando parallelamente le vicende dei tre candidati, il regista opta per un buffonesco ritratto delle manie di ognuno, caricandole eccessivamente di siparietti poco comici, di urla inutili, di divagazioni alla Drive In berlusconiana. Ne sono esempio il sogno love parade di Cetto, la sequenza di strilli (oltremodo fastidiosi, a livello spettatoriale) alla scoperta di una potenziale inversione sessuale, la fin troppo convenzionale xenofobia di Olfo, obsoleta perfino nei più zelanti bar di Pontida.
Dov’è finita l’intelligente satira sul Bel Paese? Dove sono finiti gli equilibri sinottici e i proporzionati sviluppi di trama che ben hanno saputo trarre dalle gag comiche di Albanese un film di tutto rispetto? Dov’è finito il Manfredonia dell’anno scorso, capace di un racconto senza americani happy ending e causticamente dalla parte del cattivo?
Non ci è dato saperlo. O meglio, non vorremmo saperlo.
Perché, in tal caso, la risposta costringerebbe a svilenti ma inevitabili parallelismi del regista con l’Italia odierna: nel vivere di rendita di quanto il passato di buono abbia fatto, nel ricercare la soluzione più comoda, più immediata, più commerciale e commercializzabile. C’est à dire, nel mancato tentativo di rinnovarsi scegliendo, piuttosto che un’evoluzione, un dannoso ristagno culturale. Il lavoro di Manfredonia diventa, quindi, prodotto di ciò che lui stesso poco brillantemente critica e resta categoricamente invischiato in un dimenticatoio cinematografico, in cui perfino il precedente episodio, a torto, rischia di essere trascinato.
Tuttavia, a una trama così sconnessa e autoreferenziale fa da contraltare un meticoloso lavoro sulle scenografie e costumi a opera rispettivamente di Marco Belluzzi (C’è chi dice no, 2010; Qualunquemente, 2011) e Roberto Chiocchi (Diverso da chi?, 2009; Lezioni di cioccolato 2, 2011). Il primo riesce, infatti, nell’intento di stravolgere e, al tempo stesso, caricaturare all’ennesima potenza i Palazzi della Politica, facendoli oscillare tra la rarefazione architettonica filo-fascista dell’Eur e quella apertamente kitsch delle residenze parlamentari, prima fra tutte quella di Cetto, pacchianeria neoclassica e surplus tecno-trash. A questa si aggiungano le case di Olfo e Frengo che, a detta dello stesso regista, riecheggiano “più Hansel e Gretel che riserva di caccia” o “un allegro santuario fuxia più centromaericano che non pugliese”. Chiocchi, invece, dona ai personaggi di Albanese una coerenza stilistica non banale, caratterizzandoli per eccesso, colore, deformità e cattivo gusto. Insomma, un universo a cavallo tra il glam rock di David Bowie e gli stucchi d’oro à la Tony Montana.
Vero fulcro (ma anche salvezza) del film è Antonio Albanese. Se già in Qualunquemente, l’attore ha dato grande prova di credibilità del suo personaggio, rendendolo ben adatto anche a un lungometraggio (e qui il merito, va detto, è da attribuirsi alla sceneggiatura), in Tutto Tutto Niente Niente Albanese ribadisce le sue grandi capacità interpretative, moltiplicandole in un trio caratterialmente esilarante a cui la sceneggiatura, in questo caso, non ha saputo dar giustizia. Se Cetto La Qualunque si riconferma il più adeguato a livello sinottico, a Frengo Stoppato spettano i momenti più divertenti e apertamente da gag che bastano, da soli, a risollevare le sorti di un film a tratti noioso. Non per il ritmo, si badi bene. Quanto per il gusto di “già visto-già sentito” che aleggia durante tutta la proiezione. Olfo, di contro, pare essere ancora troppo acerbo per competere con gli altri due, tant’è che la sua vena comica riesce a definirsi soltanto grazie a due ottime spalle, Fredo e Uto.
Menzione speciale agli anelli indossati da Fabrizio Bentivoglio (Ricordati di me, 2003; Scialla, 2011).
Risultato della smania di voler mettere tutto tutto, il film lascia, purtroppo, niente niente. Albanese sprecato; i personaggi vampirizzati all’estremo e la trama inconsistente.
Antonio, a livello di interpretazione una e trina rimpiangiamo il tuo La fame e la sete (1999).
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