Spring Breakers – Una vacanza da sballo

Regia: Harmony Korine
Anno: 2013

Brit, Candy e Cotty sono tre disinibite ragazze di un college americano. Senza soldi, con le vacanze di primavera alle porte, rapinano un fast-food e, raccolta l’ultima del gruppo, la timida Faith, fuggono verso le spiagge della Florida in cerca di avventure e divertimento sfrenato. Arrestate dopo un party a base di alcol e stupefacenti, escono di galera grazie ad Alien, rapper-spacciatore che le accoglie sotto la sua protezione, in una realtà criminale all’insegna di opulenza, sesso e denaro che travolgerà la vita delle giovani.

Meglio sgombrare il campo da equivoci per cogliere appieno il senso di un’opera spiazzante come  Spring Breakers dello spericolato indie Harmony Korine (Gummo, 1997, Julien Donkey-Boy, 1999), che ha fatto scalpore e raccolto consensi all’ultima Mostra del Cinema di Venezia.

In superficie, appare l’ennesimo teen-movie da riviera sboccato e godereccio (il fuorviante sottotitolo italiano, “Una vacanza da sballo”, certo non aiuta), zeppo di pazze feste in piscina, fusti di birra, belle macchine, disco-music a palla, topless abbronzati, sollazzi giocosi. Ma dietro la bollente vetrina-banchetto di corpi vogliosi, aggrovigliati, scatenati (l’incipit), si nasconde l’anima dolente e disperatamente nichilista del film.

La mancanza di gioia autentica, liberatoria. La fine del godimento del corpo e della sensualità passionale. Sostituita dall’ossessione per feticci fallici incorporati (i disegni triviali, le pistole ad acqua leccate con lascivia), che producono piacere solo perché lo evocano, lo caricaturizzano a gesti, lo rappresentano, invece di consumarlo nella sua fisicità.

La disturbante sequenza di “sottomissione”, con le lolite impegnate a infilare la canna delle pistole nella bocca di Alien, replica in modo inquietante la perversa scena-madre del coito orale mimato con la coscia di pollo vista in Killer Joe (2011) di William Friedkin. È il paradosso dello scenario mediale contemporaneo. In sovraccarico di corpi-oggetto e oggetti-corpo sessualizzati fino agli estremi. Ma al tempo stesso incapaci  di visualizzare serenamente, rendere presente la sessualità. Tutto è gravido, grondante sesso, ma il sesso sparisce, non si vede (in tutto il film non c’è una sola scena che mostri esplicitamente una delle giovani a letto con qualcuno), sublimato nella simulazione ammiccante.

Korine è radicale. Non parla banalmente della santificazione della trinità denaro-sesso-potere. Va decisamente oltre. Una delle protagoniste si eccita strusciandosi addosso luride banconote accartocciate, sfregandosele sulla pelle, annusandone il profumo (“il loro odore mi fa bagnare”). Fare sesso con i soldi. Il denaro non è un mezzo per qualcos’altro, ma il fine in sé, un orgasmo di quattrini da godere nella sua essenza assoluta. Siamo nel vuoto gelido e anaffettivo che annulla le nuove generazioni, frastornate dal bombardamento di immagini plastificate dei trash-reality americani.

Se provassimo a paragonarlo a uno stato d’animo, a una condizione psico-fisica, il film di Korine non sarebbe l’eccitazione dello sballo, l’euforia della sbornia. Ma un arido e triste intontimento post-sbronza, una paralisi inebetita (“cliccare e fermare la vita” come in un frame-stop, è l’auspicio di Faith) o una cupa depressione post-coitale. Il ronzio di un mal di testa pulsante, una nausea rivoltante da vomitare nella tazza del bagno. Sono queste le sensazioni che gravitano nel film come in un vortice confuso.

Le immagini scorrono al rallentatore (le rapine di Alien e le ragazze, la danza dei fucili al chiaro di luna, con violenza mista ad amara tenerezza sulle note di Everytime di Britney Spears). Sospese, dilatate, brevi videoclip che saltano disordinatamente avanti e indietro. Assemblati in un collage sconnesso, figlio di una logica di ottundimento del senso, dei sensi. Di offuscamento della percezione e di allentamento dei riflessi (di coscienza).

Immagini e sonoro cortocircuitano in continuazione. In un mix caotico di voci e dialoghi de-sincronizzati (in anticipo o in ritardo come in un doppiaggio sballato). Fluttuanti, dispersi, slegati da personaggi e contesto che li producono in un preciso momento.

Lo scatto del caricatore della pistola, secco e penetrante, è il rumore che ricorre insistentemente in tutto il film. Vero e proprio elemento di raccordo sonoro tra le inquadrature, che interviene a “ricaricare” sempre le stesse battute, facce, figure. Sullo sfondo dello sgargiante caleidoscopio di luci, colori fosforescenti e filtri rossastri da camera oscura.

Una galleria di patinate instant shots (spari/scatti di una macchina fotografica, come quelli mimati da Alien che inquadra con le dita il suo obiettivo, le tre ragazze in bikini). Rimestate e  (ri)girate a vuoto in un flusso audiovisivo balbettante, ridondante, riproposto a ripetizione nei suoi frammenti, fino a perdere qualsiasi consistenza. In loop come gli spezzoni di Scarface (Brian De Palma, 1983) che il gangster Alien rivede all’infinito.

Il tutto orchestrato in un montaggio da docufiction drammatica, infuso di minimalismo onirico e allucinato e di tonalità liquide (la colonna sonora ambient-techno di Skrillex e Cliff  Martinez).

Più che un film narrativo da seguire nei suoi sviluppi, una stordente, cupa e allucinata esperienza dei sensi.

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