Regia: Malik Bendjelloul
Anno: 2012
Vincitore di un premio Oscar come miglior documentario in occasione dell’ottantacinquesimo Accademy Award di Hollywood (2013), il premio BAFTA come miglior documentario al sessantaseiesimo Accademy Film Award di Londra (2013), DGA Award come miglior documentario, assegnato dal Directors Guild of America, sempre nel 2013 e WGA Award come miglior documentario assegnato dalla Writers Guild of America nello stesso anno, ACE Eddie award come miglior documentario, che è stato scelto anche come apertura del Sundance festival 2012, dove ha vinto Premio Speciale della Giuria e il Premio del Pubblico per il miglior documentario e la lista potrebbe continuare ancora.
Le credenziali con cui ci si presenta il bel documentario di Malik Bendjelloul (che da bambino aveva recitato nella serie tv Ebba och Didrik, una serie tv creata da Christina Herrstrom e trasmessa dalla tv svedese nel1990) e che in Italia si è visto in anteprima nazionale durante la conferenza stampa di presentazione del Biografilm Festival 2013, non lasciano dubbi sulla qualità di un prodotto filmico che, come vedremo, ha la capacità di coniugare il rigore documentario con una forte carica emozionale e affettiva.
Ma andiamo con ordine.
Dal nero iniziale si leva un suggestivo giro di accordi di chitarra acustica e una manciata di secondi dopo una voce ruvida ma stranamente ammorbidita da un portamento quasi soul intona una melodia struggente e insolita che parla dell‘uomo dello zucchero (sugar man in inglese).
«Ho preso il mio soprannome da questa canzone» Ci avverte Stephen Sugar Segerman, proprietario di un negozio di dischi di Cape Town, In Sudafrica.
È così che facciamo la conoscenza di Sugar Man, il singolo più amato di Rodriguez, sconosciuto profeta musicale degli anni settanta, scomparso dalle scene in misteriose circostanze che questo documentario intende chiarire.
E mentre Stephen continua a raccontarci di come questo singolo e l’album che lo contiene siano stati per molti giovani sudafricani una vera e propria leggenda, un culto musicale che per popolarità e diffusione ha surclassato Elvis, i Beatles e gli Stones, dal finestrino dell’auto che sta guidando si susseguono scorci spettacolari di mare incendiato dal tramonto, scogliere magicamente ambrate di luce riflessa, cieli arancioni e saturi.
La bella tecnica espositiva di Bendjelloul è già tutta presente in questo incipit: un intreccio continuo di testimonianze riprese con stile documentaristico e aderente al reale, a cui si alternano suggestioni visive dotate di una forte carica evocativa, paesaggi naturali e metropolitani che recano il segno di una poeticità intima e un po’ decadente, fatta di cromatismi emozionali e valori luministici che scavano nell’interiore. Il tutto legato insieme da queste ballate ruvide e vagamente lisergiche, dai blues metropolitani ed elettrificati, da certi pezzi pop destrutturati, tutti impreziositi dalla bella voce di Rodriguez.
Il racconto di Stephen ci porta sino al leggendario suicidio pubblico del musicista che, durante un tour in Australia, salito sul palco, di fronte a un pubblico adorante, si cosparge di benzina e si da alle fiamme, in un supremo ed esasperato gesto di protesta. Altri narrano che si sia sparato (sempre sul palco). Altri ancora lo vogliono morto di overdose, come ogni leggenda del rock che si rispetti.
Da qui prende il via l’indagine di questo fan accanito, alla quale, nel corso del film, si unisce anche il giornalista-musicologo Craig Bartholomew-Strydom. Insieme cercheranno di chiarire una volta per tutte i vari misteri che circondano questa leggendaria figura delle sette note.
E così via via che molteplici testimonianze di musicisti, produttori discografici e fan si intrecciano con immagini d’epoca ci ritorna gradualmente la figura di Sixto Rodriguez, che alla fine degli anni sessanta (siamo nel 1968, ci avverte una didascalia in sovraimpressione) è un cantante-song writer pieno di fascino, occhiali e vestiti neri alla Lou Reed, lunghi capelli corvini e un volto chicano, dal sorriso bianchissimo.
Suona una musica sognante e socialmente impegnata, a cavallo tra un profetismo illuminato di marca Dylaniana (il nome d’arte per esteso era Jesus Rodriguez, più profeta di così…), e certi accenti più scuri e psichedelici alla Velvet Underground del periodo di Nico, anche se a volte gli arrangiamenti sembrano risentire di vaghe influenze soul e blues.
Permea queste canzoni una tristezza poetica che mai diventa resa, una consapevolezza del dolore e della durezza della vita che veicola l’imperativo alla resistenza sociale e culturale.
Prendono la parola i due discografici che lo scovano durante una delle sue esibizioni in un locale periferico della Detroit ruvida di quegli anni. E’ una vera e propria epifania quella che sperimentano, di quelle che ti capitano una volta sola nella vita, e parliamo di gente che in seguito ha lavorato con fenomeni del calibro di Marvin Gaye, Stevie Wonder e Ringo Star, per intenderci.
Sentono di aver trovato il nuovo eroe del rock, «un nuovo Bob Dylan», dissero ai tempi, uno capace di galvanizzare l’immaginario giovanile e di creare capolavori imperituri.
Il primo disco è, a detta di discografici musicisti e critici, un vero gioiello, da cui ci si aspetta il grande salto, quello che fa di un rocker una rock star…eppure qualcosa non va per il verso giusto…il pubblico americano non risponde come dovrebbe, non capisce e, sopratutto, non compra il disco, che si trasforma in un clamoroso flop commerciale.
Destino, questo, che toccherà anche alla seconda e splendida prova di studio di Rodriguez, Coming From Reality, sulla quale ci rende una toccante testimonianza Steve Rowland, produttore del disco che a quei tempi aveva già lavorato con Jerry Lee Lewis e che più tardi avrebbe prodotto Gloria Gaynor, The Cure e molti altri artisti di fama internazionale, il quale di fronte alla macchina da presa di Bendjelloul, parlando di Rodriguez, dichiara senza mezzi termini:« He was my most memorable artist» (è stato il più memorabile tra i miei artisti) e parlando a più di trent’anni di dstanza di Cold Fact, il primo album, dice :« I can’t belive that this album didn’t do anything!» (non posso credere che questo album non abbia realizzato nulla!).
E’ una vera e propria pletora di racconti ammirati e commossi quella che ci sciorina questo film e che, un pezzetto dopo l’altro, ricostruisce l’immenso puzzle di un profilo umano, oltre che artistico, di grande levatura ma definitivamente condannato all’oblio, a un anonimato che non trova spiegazioni nelle congetture di alcuno degli interpellati.
Dì lì a poco, nel tentativo di rilanciare questo talento misconosciuto, sarebbe partito il tour fatale in giro per l’Australia durante il quale avrebbe trovato quella morte misteriosa su cui il documentario intende fare luce.
Fine della storia. Perlomeno in America (e conseguentemente anche in Europa).
Ma le testimonianze raccolte nel documentario ci dicono di un’altra verità, di un’altra terra, di una storia diversa.
La musica di Sixto-Jesus Rodriguez, seguendo traiettorie poco note e su cui i nostri detective del rock non rinunciano ad indagare, sbarca nel Sud Africa insanguinato dell’apartheid (che in lingua afrikaans significa, letteralmente, “separazione”) e succede qualcosa di imprevisto.
Il messaggio fortemente egualitario e militante veicolato da quella musica, quel fare e quel dire dal tono profetico che negli States erano passati sotto silenzio, nella terra della discriminazione più feroce piantano solide radici nelle anime e nelle coscienze, sia di quei nativi africani vessati e continuamente sconfitti, sia in quelle dei più progressisti e sensibili membri della gioventù bianca e borghese.
A dispetto della vera e propria persecuzione censoria cui Rodriguez va incontro (miglia le copie sequestrate, incursioni della polizia di regime nei negozi di dischi per rigare con punteruoli e chiodi i vinili) i giovani ne fanno un simbolo di rivolta e riscatto trasversale, capace di mandare in frantumi i rigidi limes di casta su cui si reggeva tutto il sistema nazionale. Le sue canzoni divengono la colonna sonora di una vera e propria rivoluzione culturale, sociale e politica, e ancora oggi godono di una popolarità che supera di gran lunga quella di miti come Elvis Presley o i Rolling Stones (lo si diceva in apertura).
Solo che questo, Sixto Rodriguez non lo ha saputo mai, e nemmeno i suoi discografici, a quanto pare.
La narrazione investigativa procede a ritmo serrato tra testimonianze in prima persona e bei momenti di pura visione e ascolto, sino al momento in cui arriva la classica svolta nelle indagini, si rivela il famoso tassello mancante che determina il risolutivo cambio di prospettiva e che ogni investigatore di celluloide ricerca per tutto il film.
Tuttavia, onde evitare incresciosi spoileramenti che potrebbero diminuire il piacere della visione di alcuni potenziali spettatori, sospendo qui la mia ricognizione sul film e invito tutti a godersi per intero questa bella pellicola.
Al di là dell’elevato valore documentario implicito nella minuziosa indagine condotta dai due fan, emerge con forza tutta la bellezza dell’onestà, della caratura morale di questa musica e del suo autore.
Guardando il film si ha come la sensazione che per una volta le cose vadano per il verso giusto, e che almeno in questo caso il vero talento, la faccia pulita che ha il rock quando non accetta compromessi, abbia trovato il suo giusto riconoscimento, seppure tardivo.
Bendjelloul seduce con il suo lirismo visivo ma non visionario, che spennella il testo di una poeticità dal tocco lieve, che non si ostenta mai e non autoindulge a sé stessa. Di assoluto pregio il lavoro sui supporti, che nel passaggio tra frammenti contemporanei, girati in digitale e quelli d’epoca girati in 8mm, ci restituisce uno spazio del ricordo segnato da forte emotività e certamente lontano anni luce dall’atteggiamento distaccato e puramente informativo che ci si potrebbe aspettare da un film documentario.
Nota conclusiva per gli appassionati di tecnica cinematografica: Bendjelloul, aveva iniziato le riprese con una fotocamera professionale super8, la cui pellicola come sappiamo è estremamente costosa e avendo esaurito il budget disponibile prima del previsto, ad opera non conclusa cioè, ha terminato il suo lavoro utilizzando un normalissimo iPhone dotato di una particolare App che simula gli effetti del super8, ottenendo risultati difficilmente distinguibili da quelli dell’attrezzatura professionale.
Viva la creatività e la voglia di raccontare!!