Regia: Valeria Golino
Anno: 2013
“Allora, mi dica, come procediamo? Non ho molta pratica. È la prima volta che muoio”. Esordio alla regia di Valeria Golino con un argomento non semplice da trattare e passibile di facili moralismi: il suicidio assistito. Invece con sobrietà e misura, la Golino riesce a sfangarla più che egregiamente e porta a casa, oltre all’apprezzamento di pubblico e critica, la partecipazione al Festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard.
Opera prima di respiro internazionale, ispirata al romanzo A nome tuo di Mauro Covacich, il film della Golino non può che richiamare alla memoria altre pellicole come Mare Dentro di Alejandro Amenabar (2004) e la più recente Bella addormentata di Marco Bellocchio (2012). A differenza di queste però, che trattano l’argomento partendo da una dimensione privata per poi coinvolgere la società conformista e l’impasse normativo, Miele segue una prospettiva insolita, più discreta e introspettiva, capovolgendo totalmente il punto di vista: la storia narrata è quella di Irene (interpretata da Jasmine Trinca), ovvero la triste mietitrice.
Irene è sola. Irene è malinconica. Irene non ha una vita. Ha un padre che di lei non sa nulla. Aveva una madre, morta dopo una lunga malattia. Ha relazioni superficiali e insignificanti.
Irene ha un segreto e quel segreto si chiama Miele. Questo è il nome che Irene si è scelta per la sua attività particolare.
Miele uccide le persone.
Non è un killer. E’ una professionista dell’eutanasia: aiuta a morire chi ormai una vita non l’ha più.
Miele prepara le dosi del barbiturico letale che recupera nei suoi viaggi in Messico. Spiega al paziente con freddezza e precisione come assumere il medicinale. Seleziona la colonna sonora per il trapasso. Raduna i familiari al capezzale.
Miele chiede prima che sia troppo tardi: “Sei sicuro? Puoi ancora fermarti.” Ma è una domanda di rito che nessun malato accoglie mai.
Miele assiste il paziente in silenzio, in disparte, fino alla fine, poi se ne va, come un fantasma, portandosi dietro il dolore che ha lasciato in quella stanza.
Miele ha un solo amico (Libero Di Rienzo), l’unico depositario del suo segreto, il suo pusher di clienti, il traghettatore di anime che la mette in contatto con quel mondo di disperazione.
Miele è stanca e provata, il suo cuore non regge più. Ma la sua è una missione, un’ espiazione (ma anche un buon progetto economico) che la spinge a continuare nonostante il dolore.
La sua fede vacilla quando incontra il Dott. Carlo Grimaldi (Carlo Cecchi), un vecchio ingegnere di Roma che reclama i sui servizi. Ma come comportarsi quando il paziente in realtà non è un malato terminale, ma è solo stanco della vita e della stupidità umana?
Riccardo Scamarcio, produttore del film e compagno di vita di Valeria Golino, in un’intervista dice di Miele ,“storia emozionante ma mai melodrammatica”.
Ed è vero. Se c’è una cosa che si può assicurare con certezza è la lontananza da quei lirismi patetici che molto spesso caratterizzano la cinematografia drammatica italiana. La tematica affrontata è per sua stessa natura pesante da digerire, nonché controversa, e intelligentemente la Golino non ha voluto caricare di ulteriori significati un argomento che è già esaustivo di per sé.
Anche la recitazione della Trinca non è mai esagerata o affettata. Il dolore è presente ma con una certa grazia, fino a sfiorare momenti di ironia e sarcasmo nei dialoghi con il co-protagonista Carlo Cecchi.
L’aspetto fisico di Irene/Miele è perfetto per una moderna personificazione della morte: l’androginia che la contraddistingue non permette di vedere in lei qualcosa di conturbante e seducente. E’ una figura dura ma eterea, giovane ma senza tempo, e soprattutto misurata nella sua attività professionale.
Gli eccessi e la frenesia invece caratterizzano la sua vita privata: attività fisica convulsa, corse in bici, surf e nuoto, viaggi aerei stressanti, camere d’albergo in ogni parte dell’Italia e del mondo, sesso occasionale e insignificante. Il suo I-pod è l’unico compagno persistente che le spara nelle orecchie musica a tutto volume. Musica che sentiamo anche noi spettatori, e forse anche per noi una blanda distrazione da tutta quella sofferenza.
Un tentativo di fuga si può leggere anche dietro ai frequenti nudi della protagonista, mai volgari, ma giustificati (forse) da una volontà di spogliarsi dalla fatica, di cambiare d’abito per cambiare vita, di staccare dalla pelle l’ineluttabilità della morte.
Il film ha il grande merito di non dare giudizi affrettati ed economici. Sì, perché nonostante avrebbe potuto essere semplice salire in cattedra e spingere il film verso una deriva moraleggiante, la Golino si mantiene al di là del bene e del male, ma ci costringe ad una riflessione equilibrata quanto inevitabile: qual è il limite etico della buona morte?
Fino a che punto si può parlare di atto compassionevole e quando invece diventa concorso in omicidio? Miele se lo chiede quando incontra l’Ingegner Grimaldi, un uomo che semplicemente ne ha abbastanza della vita. Il dilemma morale è racchiuso nelle posizioni di questi due personaggi.
“Io non sono un killer. Non ammazzo i depressi” si giustifica la ragazza. Ma la risposta di Carlo Grimaldi è inappuntabile: chi stabilisce che una malattia fisica sia più grave di una malattia mentale?
E’ vero, un depresso non è un malato terminale. Un depresso può farcela e uccidere qualcuno che può farcela crea qualche scrupolo in più… Ma in definitiva è sempre questione di libero arbitrio e chi vuole morire non sente ragioni.