Regia: Marco Bellocchio
Anno: 2012
Primi giorni di febbraio 2009. Sono gli ultimi di Eluana Englaro, prima dell’interruzione del trattamento che la tiene in stato vegetativo da diciassette anni. A margine del pressante clamore mediatico, si seguono le storie parallele di alcuni personaggi: un senatore del Pdl vive una crisi di coscienza, un’ ex attrice assiste la figlia in coma, due giovani di idee opposte si innamorano, un medico tenta di salvare la vita di una paziente tossicomane.
Marco Bellocchio riflette sull’indegno spettacolo della vicenda di Eluana. Piazza tutti sulla scena, nessuno escluso. I cittadini: le comparse, in corteo, in preghiera. I politici: i “caratteristi” (come li definisce il senatore psicologo), pronti a comparire sul palcoscenico per appropriarsi della scena madre, il corpo di Eluana. La Chiesa: il coro in sottofondo, vuoto, sordo, distante. Nessuno vede o sfiora Eluana, ma tutti vogliono quel corpo per sé.
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Il regista prosegue nella denuncia della manipolazione brutale di vite, persone, corpi. In Vincere (2009) il corpo di Ida Dalser veniva occultato, fatto sparire, la sua identità azzerata dall’azione repressiva della Storia. Qui invece il corpo di Eluana è sovraesposto fino allo sfinimento, la sua immagine data in pasto a chiunque voglia specularci sopra, indebitamente, senza pudori. E’ l’isteria incontrollata dell’immagine mediatica, immagine ormai priva di significato, come dice il senatore Beffardi (un impeccabile Toni Servillo).
Lo si vede nella sequenza della foto di rito dei senatori: ectoplasmi inconsistenti, in sovraimpressione sullo schermo che mostra il teatrino della politica, la scenografia fittizia di bandiere e folla urlante.
Di fronte a queste storture, Bellocchio invita a un dovuto e sereno distacco, filmando con toni raffreddati, grigi, pallidi (la fotografia neutra di Daniele Ciprì). Unica eccezione il bianco abbagliante che inonda la stanza d’ospedale. Un bagliore di speranza che si affaccia nell’intimità di una vita e di un amore che stanno finendo. C’è ancora spazio per un po’ di umanità in un gesto spontaneo: l’abbraccio che stringe e quasi soffoca una bella addormentata.
Acqua fredda gettata in faccia, all’inizio, e uno schiaffo, alla fine del film, per svegliarci, destarci dal torpore, per dimostrare che possiamo ancora provare, sentire qualcosa di autentico, nei nostri cuori, sulla nostra pelle.
Un film che, una volta tanto, invece di qualcosa in più, ci lascia, fortunatamente, qualcosa in meno: ci scrolla di dosso la smania, la curiosità morbosa con cui penetriamo impuniti nelle vite e nel dolore altrui.