Regia: Giuseppe Tornatore
Anno: 2013
Uno stimato antiquario un po’ dandy, Virgil Oldamn (Geoffrey Rush), è contattato da Claire Ibeson (Sylvia Hoeks), una giovane donna rimasta orfana, che chiede una valutazione della villa di famiglia e di tutto quello che contiene. Oldman detesta i modi viziati dell’ereditiera, che manca i primi due appuntamenti, non si fa vedere mai, parla solo al telefono.
Pian piano, però, il navigato antiquario cede al fascino misterioso della ragazza; quando scopre che è malata di agorafobia e vive rinchiusa in una delle stanze della villa si innamora di lei. La fragile creatura un po’ gli somiglia. Anche Virgil ha la sua fobia: quella del contatto, usa guanti per tutto. Nella sua casa ne ha un corredo sterminato, un armadio intero, che però è anche porta di accesso alla sua privatissima collezione di quadri che raffigurano volti femminili.
Un museo segreto costruito in una vita di aste di cui è indiscusso battitore, con la complicità del suo amico-compare Billy Whistler (Donald Sutherland). Così Virgil si è allestito una specie di stanza-cassaforte con pareti costellate di donne dipinte. In questo luogo si rifugia ogni giorno. In questo luogo ama le donne, o meglio la donna ideale, pura contemplazione estetica.
Con Claire per la prima volta conosce un amore “vero”. È quindi impacciato, non sa corteggiare né sedurre. Chiede consigli al suo giovane amico Robert (Jim Sturgess), bottegaio-artigiano-aggiustatutto. Con lui parla della donna, mentre gli consegna strani marchingegni trovati sparsi nella villa curando l’inventario.
Spera che l’amico aggiustatore riesca a capire di cosa si tratti. Forse è un antico umanoide-robot del diciottesimo secolo. Intanto l’amore per Claire cresce, è autentico, sensuale, sentimentale, e finalmente ricambiato. Lei grazie alle cure di Virgil comincia a superare la malattia.
Tutto sembra perfetto, quando l’esperto di falsi cadrà vittima di un sofisticatissimo inganno. Colpo di scena finale dal sapore classico, a metà fra Agatha Christie e Alfred Hitchcock.
Dopo il sicilianissimo “Baaria” (2009), Giuseppe Tornatore torna sullo schermo con un noir quasi nordico. Un film pieno di fascino e di sapienza cinematografica. Il soggetto – ideato e sceneggiato dallo stesso Tornatore – si sviluppa in una trama ricca, piena di elementi di narrazione e di pensiero. Tutto ruota intorno al tema dell’inganno e della simulazione, intrecciati nella vecchia teoria per cui in ogni falso c’è sempre qualcosa di autentico.
Tornatore costruisce il racconto attorno a questa spirale concettuale, che è tematica antica quasi barocca, con una regia attentissima, maestra nell’uso del linguaggio cinematografico puro, tutto impresso sulla significatività delle immagini.
Una cura quasi collezionistica delle ambientazioni, una fotografia perfetta (Fabio Zamarion), classica, pittorica (antica passione del regista). Eppoi la musica di Morricone, che sostiene magistralmente l’incedere inquieto della storia e lo svolgersi degli eventi.
Il resto lo fa la superlativa interpretazione di Geoffrey Rush – pluripremiato attore australiano, Oscar nel 1997 per lo struggente “Shine” (Scott Hicks, 1996), con il recente “Il discorso del re” (Tom Hooper, 2010) ha sfiorato un altro Oscar – anche qui merita un premio.
La migliore offerta è dunque un’opera completa, raffinata ed elegante, dal layout internazionale eppure “mediterranea” nell’anima, quando nella conclusione lascia aperta l‘illusione romantica dell’amore e dell’attesa. Perché – come dice lo stesso regista – questo film è un thriller ma è anche una storia d’amore. Da non perdere.