Regia: Alfred Hitchcock
Anno: 1958
A San Francisco, il detective John “Scottie” Ferguson soffre di tremende vertigini e lascia la polizia. Un vecchio amico chiede il suo aiuto per sorvegliare la moglie, posseduta, sembrerebbe, dallo spirito della bisnonna, suicida molti anni prima in giovane età. Mentre Scottie subisce il fascino della donna, il mistero si infittisce…
Dopo il passaggio al Festival di Cannes 2013 nella sezione Classics, si è rivisto in sala per soli tre giorni (dal 21 al 23 ottobre), distribuito da QMI in versione restaurata, uno dei capolavori assoluti di Alfred Hitchcock: La donna che visse due volte (“Vertigo”, 1958). Film-sogno, sospeso fra spirali oniriche (i titoli di testa di Saul Bass) nei più remoti recessi del desiderio? O febbrile “sogno filmato”, come lo intendeva Truffaut? Domanda oziosa, perché in Vertigo ci si perde comunque, oggi come allora.
Difese e riflessi allentati, l’equilibrio emozionale compromesso. Anche noi tremolanti in bilico su un cornicione, terrorizzati all’idea di guardare giù, in fondo a un precipizio di paure e manie inconfessabili. Senza poterci aggrappare a nulla per scampare alla caduta nel baratro della perdizione, vuoto e buio come la tomba in cui il protagonista James Stewart sogna di sprofondare.
Nemmeno un risveglio in preda ai sudori può fugare le tenebre e allontanare fantasmi di sesso e morte. A Scottie non resta che imbarcarsi in un’inquietante odissea urbana ed esistenziale (la prima del cinema moderno?), vagando smarrito per le strade di San Francisco per (in)seguire e spiare la sua ossessione (lo sguardo voyeuristico onnipresente in Hitchcock). Fino a raggiungerla, perderla, ritrovarla e perderla di nuovo.
Desiderio continuamente interrotto e frustrato poichè, come in sogno, il terreno frana da sotto i piedi, le gambe non rispondono bloccandosi sul più bello, come Scottie immobile e impotente sulle scale della chiesa. Oscillazioni del senso e dei sensi. Salite e discese (cadute?) infinite nell’abisso dell’anima, su e giù, avanti e indietro simultaneamente (anche a livello stilistico, con la celebre combo carrellata all’indietro- zoom in avanti per mimare il brivido della vertigine), come nelle impossibili scale di Escher (l’opera Relatività, 1953).
È il destino di uno dei tanti everyman dell’Hitchcock probabilmente più morboso e pessimista di sempre. La maschera prima docile poi luciferina di James Stewart (le dominanti cromatiche blu, rosse e violacee ne colorano il viso sbarrato) a incarnare l’egoismo passionale, la brama erotica e possessiva di un uomo che non sa o non può dare più nulla al prossimo. Maniacalmente impegnato nel tentativo di “ricreare un’immagine sessuale impossibile” (Hitchcock dixit) che possa soddisfarlo, soffocando per sempre tormenti e sensi di colpa.
Mica poco, in epoca di perbenisti bacchettoni e restrizioni del Codice Hays. Non esiste moralità nell’azione di Scottie, e forse nemmeno rispetto. Il riconoscimento dell’altro è da prendere alla lettera. La donna è “riconosciuta” solo se corrisponde alla perfezione a un’immagine che eccita i sensi e la libido maschile, in un’adorazione feticista tanto appassionata quanto indebitamente malsana (Scottie sceglierà con coercizione vestiti, scarpe e taglio di capelli della donna).
Amore estremo ed affetti ordinari. Sono i due poli tensivi tra cui si muove Scottie, probabilmente gli stessi di Hitchcock nella vita: la fatale attrazione per l’affascinante, tormentata e inafferrabile Madeleine (Kim Novak) da una parte, la tenera e casta relazione con la scialba e impacciata Midge (Barbara Bel Geddes) dall’altra. Contrasto sottolineato anche da una precisa ricerca cromatica.
Il fuoco della passione si accende con la lucida vestaglia vermiglia indossata da Madeleine e le pareti rosso carminio del locale Ernie’s, crocevia notturno di folgoranti apparizioni (Scottie ci incontra Madeleine) e allucinazioni concupiscenti (l’uomo crede di scorgere l’amata in qualunque bionda elegante che attraversi la sala).
Di giorno si torna all’atmosfera trattenuta, ai toni pallidi e un po’ sciatti della studio di Midge, ingenuo focolare domestico e inetta figura materna presto abbandonata in un grigio corridoio d’ospedale. Poi, quel verde da cui Scottie pare irresistibilmente attratto: è il colore dell’auto e dell’abito da sera che Madeleine indossa da Ernie’s, ma anche del vestito che porta la sosia Judy camminando per strada.
E quando finalmente l’uomo può abbandonarsi al piacere, riappropriandosi dell’oggetto del desiderio, il voglioso bacio della coppia è inondato proprio dalla luce verde di un neon, con la m.d.p. che gira loro attorno in una sequenza condotta magistralmente.
Questo Hitchcock, lontano da qualunque visione umanista conciliante, non avrebbe dato retta a una popolare strofa di Jovanotti sulla vertigine, che per il maestro resta l’angosciante paura di cadere nei meandri oscuri dell’animo umano.
Soprattutto sapeva che una volta iniziata la caduta, poi si scivola sempre più giù. Perché, come scriveva un altro celebre pessimista, il naufragar ci è dolce in questo mare di paure, desideri e malinconia che è l’incubo dell’individuo moderno.