Regia: Joel Coen
Anno: 1998
Con Il Grande Lebowski, i geniali fratelli Coen (entrambi autori) e il grande cast composto da Jeff Bridges, John Goodman, Steve Buscemi, John Turturro, Julienne Moore, David Huddlestone e Sam Elliot, ci regalano una perla di umorismo tutto americano e una riflessione sul senso della vita.
Tra «qualche strike e qualche palla persa» e tra una moltitudine di eventi casuali e causali, i protagonisti del film vanno alla ricerca di Bunny – l’indebitata giovane moglie scomparsa o forse rapita del vecchio miliardario Jeffrey Lebowski (David Huddlestone) – e del milione di riscatto anch’esso scomparso perché affidato a Drugo (Jeff Bridges), improbabile corriere con il compito di consegnare i soldi ai presunti rapitori, ma che poi perde il malloppo. Malloppo che non verrà più ritrovato e di cui ad un certo punto si dubita perfino l’esistenza.
La storia ha il sapore della ricerca del senso della vita, un senso perduto, che sembra avere abbandonato il caotico mondo moderno, ma in cui tutti abbiamo fede, quasi come ci ricordassimo di averlo un tempo posseduto e poi perso, e che tra gli alti e bassi delle nostre vite inseguiamo come la cosa più preziosa da avere.
Ogni personaggio ha una propria filosofia di vita e una teoria riguardo il mistero della ragazza e del malloppo scomparsi, proprio come molti di noi hanno teorie e schemi con cui tentare di spiegare quella moltitudine di accadimenti, talvolta imprevedibili, che chiamiamo esistenza.
La ricerca e l’imprevisto sono temi ricorrenti in altri film dei Coen, come gli indimenticabili Arizona Junior (1987) in cui tutti cercano il bambino scomparso per avere la ricompensa promessa dai genitori, e Burn After Reading (2008) in cui il “caos”, irrompendo nella trama, finisce col farla da padrone e diventa il vero protagonista.
La vicenda si svolge durante il primo conflitto americano-iracheno ed è ambientata a Los Angeles, all’ovest. Si tratta di quella parte di America in cui ancora si avverte il passato mitico dei cowboy, gli eroi epici della cultura americana, l’incarnazione stessa del senso della vita, uomini veri che sapevano sempre cosa fare e dove andare.
La prima scena è l’inquadratura dei ciuffi d’erba della prateria, con la voce narrante di un cowboy che dice: «nel lontano ovest conoscevo un tipo, un tipo di cui voglio parlarvi». Viene introdotto così il protagonista, Drugo (come si fa chiamare). È un uomo di mezza età, un nullafacente sovrappeso e pigro, con i capelli lunghi, amante dei Creedence Clearwater Revival e del bowling. Il caso, però, vuole che si chiami anche lui Jeffrey Lebowski.
Da questo equivoco, beffardo scherzo del destino, inizia tutto. Drugo si trova catapultato in storie assurde di debiti, pornografia e scagnozzi, cose che capitano così, quasi senza senso, come le cose della vita capitano spesso. Ma lui, Drugo, è solo l’uomo comune, il tizio che inciampa negli avvenimenti. Drugo è l’unico a non avere teorie. Tra un white russian, uno spinello e una partita a bowling, talvolta manifesta dei sospetti e fa delle congetture, ma sempre inconcludenti, mai definitive, spesso biascicando come un hippie dal cervello annebbiato, nella cui foschia, verso la fine del film, esplode uno spettacolare “flash” in cui tutte le sue esperienze vengono ricomposte in un’“acida” e surreale dimensione onirica dal deciso gusto anni ‘70.
Come l’utopico superuomo nietzschiano, da tutta la storia Drugo trae un’unica conclusione. La vita va presa come viene, cosa che lui ha sempre fatto. Ma la consapevolezza che ne acquisisce è la sua elevazione, che esprime il carattere salvifico del film. Perché se nel torneo di bowling della vita molti di noi non sono nessuno, come Donny (Steve Bushemi), o perdono se stessi nelle tante guerre che ci dilaniano, fingendo poi di essere qualcun altro come molti personaggi del film, giunge un momento in cui dobbiamo trovare il vero uomo che è in noi, come canta Bob Dylan nella sua The Man In Me.
La voce narrante viene incarnata dal Cowboy (Sam Elliot), che giunge come un’apparizione accanto a Drugo seduto al bar, accompagnato dalla celestiale musica western. «Ehilà Drugo, come te la passi? Una di quelle giornate?».
Il cowboy è l’unico che spiega. Spiega la vita direttamente allo spettatore con un sorriso da vecchio pistolero che solo Sam Elliot sa esibire, carico di complicità e sapienza. Lo spettatore viene così coinvolto dall’angelo con baffi e cappello, e guarda il film proprio come qualcuno lassù «guarda la dannata commedia umana che procede e si perpetua».
Molte sono le interpretazioni e i misteri da svelare riguardo questa pellicola che non smette mai di comunicare qualcosa, anche dopo averla vista più volte.