Regia: Sam Raimi
Anno: 2013
Vallate oniriche. Impetuose cascate di smeraldo. Bellezza declinata in ogni sua caleidoscopica forma. Le note di Mariah Carey come ultimo e prezioso lascito.
Una Disney d’altri tempi. Una Disney che s’abbandona al piacere dello strabiliante. Una Disney che colora i grandi sentimenti e amplifica le microscopiche sfumature tipologiche dei suoi eroi. Una Disney che cede al compromesso del nuovo serbando l’intatta e semplice meraviglia dei suoi racconti di sempre.
Uno spettacolo tridimensionale che rapisce lo spettatore e lo trascina, inconsapevole, in un cosmo nutrito d’incanto, rorido di magia, intriso di stupore. L’animo di chi osserva è sopraffatto dall’abbagliante policromia degli ampi ritagli paesaggistici, dalla tenera presenza di alcuni chimerici personaggi, dal mistero e dall’arcana magia delle tre streghe del regno di Oz.
Si annusa il gusto mellifluo del nettare, il soporifero odore dei papaveri, la segreta austerità di prodigiosi recessi e la vastità assordante dell’amore senza compromessi.
Oz è il luogo che si trova al di là. Oz è il mondo che dimora oltre il cielo. Oz è l’universo in cui la bontà si reifica. Oz è il recinto della redenzione. L’estensione della coscienza e del possibile.
Lui (James Franco) è un mago truffaldino che, fortuitamente precipitato su di una mongolfiera, piomba in un reame fatato vessato dallo strapotere dilaniante della strega cattiva, Evanora (Rachel Weisz). Suo l’ingrato compito di portare in salvo, in accordo a una vetusta profezia, le improbabili presenze di quella regione.
Lui è un quasi impostore. Lui è un uomo venale ed egoista. Lui millanta amore illudendo e deludendo il cuore buono della strega Theodora (Mila Kunis). Il suo cammino conduce alla meta chiamata integrità; il suo iter attraversa il sentiero dell’egocentrismo e approda al lido appellato filantropia; il suo sguardo narcisistico sprofonda nel lago dell’indolenza e riscopre l’amore di Glinda (Michelle Williams), causa agens della sua metamorfosi morale.
Il regista Sam Raimi, seguendo i dettami stilistici della Walt Disney, rivela commovente perizia descrittiva nella raffigurazione degli immaginifici esseri, geneticamente imparentati con le irreali sagome del locus amoenus di Alice in Wonderland (Tim Burton, 2010). La follia del Brucaliffo e la tenerezza di Panco Pinco si riverberano nella Scimmia volante, coscienza a mo’ di grillo parlante del mago, e nell’orfana bimba di porcellana, momento redentivo del protagonista.
La lotta, all’ultimo incantesimo, tra le avvenenti fate sorelle riecheggia l’alacre duello tra la Regina bianca (Anne Hathaway) e la Regina di cuori (Helena Bonham Carter), con una trasmutazione in triangolo dell’antitetico binomio sororale.
Il cappello di James Franco e la sprezzante sua presenza in quel caos meraviglioso, riconvoca la parvenza aitante di Johnny Deep nel film di Tim Burton.
L’incipit black and white della pellicola disneyana, ambientato nel Kansas, che contrasta con le vicende in medias res, armonizzate nel mare delle bizzarre nuances di Oz, richiama l’habitat d’epoca di DarkShadows (2011, Tim Burton).
L’opera risente della filmografia fantasy costruita su tre dimensioni degli ultimi anni. Le ampie prospettive paesaggistiche, la natura formicolante di stupefacenti volti, l’ibridazione d’umano e sovrumano, di antropico e fantasmatico, il colpo d’occhio e il salto nel vuoto della finzione scenica a cui s’abbandona il pubblico, riflettono pièces cinematografiche come Avatar (2010, James Cameron).
Per riuscire a lambire insormontabili traguardi non serve l’indicibile carisma della divinità, né la mano occulta del sortilegio. Per centrare l’obiettivo agognato e pretenzioso occorre la forza dell’ingegno, che non scada in tracotanza, e la vibrante pulsione dei sentimenti.
Questo è il viaggio verso lo sconosciuto, verso l’esotico, verso l’ignoto. Questo è un viaggio sentimentale ed etico. È il viaggio della finzione che disseta gli aridi recessi del disincanto. Un viaggio verso un’isola che non c’è ma che sembra essere quasi casa, come recita la colonna sonora dell’inno firmato da Mariah Carey.
Must See!!
Non riesco a spiegarmi il successo, di critica e pubblico, di questo film. Io l’ho trovato banale nell’essenza, in ogni sua parte: una sceneggiatura debole, una regia poco innovativa, per non parlare del trucco e dei costumi, innegabilmente improponibili. Peccato, perché, come dici tu (Dario), ad oggi è possibile costruire un film di questo tipo partendo da esempi tecnicamente grandiosi, con risultati spettacolari. Ma la cosa che mi ha convinto a respingere qualsivoglia opinione positiva è stata la povertà del linguaggio parlato: i dialoghi sono miseramente insicuri, non riescono a volte a sorreggere le battute tese all’ironia, non sono in grado di sostenere i personaggi, per renderli credibili, forti. I personaggi non hanno spessore: quel rilievo che si è cercato di dare loro con la scelta di un cast noto (o, peggio/meglio, talentuoso) ha reso insopportabile la vista di quegli attori, premi Oscar (Rachel Weisz) o quasi (James Franco e Michelle Williams). Spaesati tra le deboli griglie di un copione scarno, sono alla continua ricerca di una personalità credibile che, alla fine, resta inappagata. Peggio di tutto: il personaggio di Theodora (interpretato da una, qui, pessima Mila Kunis dai leggins in pelle, di un trash senza eguali nella filmografia fantastica), iniziale portatore di una ingenuità infantile (seppur interpretato da una trentenne, come la Glinda della Williams, d’altronde) non ottiene alcun riscatto. Rimane un buco nella sua evoluzione: non diviene buono, eppure non sarà mai annoverato tra i grandi delle evil forces Disney. Per riassumere: se avessi un figlio, non lo porterei a vedere questo film.
Scusate la veemenza, me la prendo con un film che considero dannoso (dato il suo successo economico, e non solo), non con le vostre rececnsioni, che considero buone, complete e sempre interessanti.
Davide