Regia: Wojciech Smarzowski
Anno: 2013
Drogówka è un metapoliziesco, c’è chi direbbe noir. I protagonisti, ciurma di scapestrati e derelitti agenti di polizia stradale, non sono però qui né antieroi, né inetti, bensì archetipi attanziali (il ninfomane machista, il drogato, l’ubriacone, il represso, l’apatico cazzeggiatore a spiccare) tesi alla rappresentazione di un coacervo di umana disumanità. Loro, rappresentanti della legge di una Polonia in disfacimento, strizzano l’occhio alla corruzione vista come benefit quotidiano, sghignazzano e si sollazzano in mezzo a storie di prostituzione routinaria, vivono l’esistenza come coloro dai quali dovrebbero difenderla. E però in questa goliardia di abitudinario abuso di potere sono incoscienti di essere ultima ruota di un carro ben più grande, quello di uno Stato colluso in questioni di abusivismo e malaffare d’ogni sorta, a suo totale agio nel torbido, noncurante delle vittime-carnefici che produce e distrugge nel contempo.
Smarzowski che ben dirige un film che in patria (dato sociologicamente rilevantissimo) ha sbaragliato concorrenze solitamente inarrivabili (Iron Man 3 e gli imbattibili Puffi), non pecca di morale nella rappresentazione della sua drogówka, ed anzi con sano cinismo puntella la narrazione di momenti grotteschi à la Fratelli Coen esorcizzando così i demoni di un altrimenti facile “bacchettonismo“. Riflette poi lucidamente sul rapporto fra etica e medium in una società oramai spoglia di ogni intimità, fonde essere e apparire e riflette sulla traslitterazione dell’hic et nunc in un dominio di totale pervasività di dispositivi di registrazione.
Ne deduce, nei succitati termini di una società in disgregazione, un divaricarsi asintotico che vede da un lato una perdita di consapevolezza (da parte di chi più di altri dovrebbe essere consapevole) e dall’altro un gonfiarsi indefinito dei confini della ricattabilità. Opera di ontologica valenza dunque, non priva di qualche trascurabile difetta nell’omogeneità della sua interezza.
Formalmente domina infatti la vorticosa shaky camera ai quali ci hanno abituato gli horror movies dell’ultimo decennio, demarcata pesantemente sul piano enunciativo ma a tratti confusa su quello diegetico. Nel profluvio di mezzi di ripresa amalgamati nell’unicum filmico di Drogówka, che mira ad accrescere il suo valore di testimonianza del reale (pur godendo a pieno dei privilegi della finzionalità), a volte ci si perde in lungaggini vagamente soporifere, nelle quali le soggettive paiono sbucate dal nulla (“chi diamine stava riprendendo qui??”) e a farne le spese sono la sospensione dell’incredulità e l’architettura della narrazione, salvo non eccedere in una francamente improbabile esegesi metafisica.
Ma a tenere in piedi il comunque solido progetto di fondo è la tendenza ad un mockumentary (così detto tecnicamente) serio ma non serioso, dal montaggio serrato ma fine (con qualche insospettabile jump cut stile Godard), e improntato dal regista-sceneggiatore ad un giusto e cauto débrayage, pratica filmica che volutamente distanzia l’istanza enunciatrice da una qualsivoglia emissione di giudizi di valori.
Finale falsamente amaro, che vede nella triste sorte del nostro non-protagonista niente più di una sensazione di riflessa apatia, né dispiaceri né tristezze, giacché risulta pressoché impossibile identificarsi nelle vicende dell’assortita ciurma di poliziotti, non già per via di una loro presunta immoralità (su detta come frutto di una sistematica marcescenza dell’intero contesto), ma per la raggiunta coscienza di una loro collocazione in sfere più alte, ridotti a pedine di una microsociologia filmica che più restringe il campo più di fatto allarga la visione interpretativa.
A pie di pagina ineludibile il parallelo con l’italietta nostra, non forzato ed anzi alluso dallo stralcio del film che si fregia dell’espressione “bunga bunga” in una delle tante scene di corruzione politica. Bunga bunga già, e non basta altro per far esplodere in sommesse risa l’intera sala; due parole a richiamare dentro un intero universo semantico.