Un pianeta identico e speculare alla Terra, com’è il cinema, com’è la tv. Apoteosi del doppio, che è seconda opportunità, ma anche incapacità di introspezione senza un tramite esterno.
Il film (premiato al Sundance Film Festival nel 2011) inizia con un futuro brillante, all’orizzonte.
Rhoda Williams (Brit Marling, che ha scritto la sceneggiatura) è stata ammessa al MIT, festeggia, balla, beve, guida.
Alla radio annunciano l’apparire di un pianeta gemello della Terra, abbastanza vicino da essere avvistato ad occhio nudo. Rhonda guarda le stelle e distrugge una famiglia, schiantandosi con l’auto.
Altri film hanno preso piede da un incidente stradale. Ne troviamo uno nell’incipit di The Descent – Discesa nelle tenebre (Neil Marshall, 2005) o all’inizio di Ore 11:14 – Destino fatale (Greg Marcks, 2003).
Anche se quello più spettacolare resta quello di Final Destination 2 (David R. Ellis, 2003).
Questi sono tutti film horror, però. Another Earth non lo è.
E’ una storia d’amore e di introspezione. Di possibilità sfiorate con la punta delle dita e perse in una miriade di altre possibilità che si sdoppiano all’infinito e costituiscono varianti possibili/impossibili di realtà, come nella teoria dei quanti di Plank. E così, ecco moltiplicarsi atomi di vita, come granuli di energia indivisibili.
Niente romance amara alla Sliding doors (Peter Howitt, 1998), ma una riflessione sul passato (che non cambia) e sulle ripercussioni, nell’universo, di ogni azione.
I passaggi di camera dal cielo alla Terra doppio, la voce narrante che riflette sul vero significato della vita e sull’incapacità di capirsi e comunicare ricordano le atmosfere di The Tree of life (Terrence Malick, 2011).
In Another Earth, tutto inizia in prossimità di strisce pedonali che non hanno il fascino artistico di quelle sulla copertina di Abbey Road dei Beatles, ma sono punto di congiunzione fra un prima e un dopo. Sono strisce identiche che portano a marciapiedi identici, a metà fra la Terra e Terra 2.
Il secondo pianeta azzurro, all’orizzonte, ricorda l’approssimarsi del pianeta Melancholia nel film omonimo, diretto da Lars von Trier nel 2011. A differenza di quest’ultimo, che va visto dall’inizio alla fine per apprezzarne il finale (che è espressione di tre diversi atteggiamenti verso la morte), in Another Earth tutto è doppio o ha una duplice interpretazione (pure nel finale).
Anche una scena breve e marginale come quella in cui un ragazzo cammina per strada, indossando una maschera da alieno verde, sembra urlare “gli alieni sono fra noi, perché noi siamo gli alieni”.
La cittadina in cui si svolge la storia si chiama New haven (nuovo paradiso) che è un andare all’altro mondo metaforico, verso il purgatorio degli errori mai perdonati.
I film, poi, non sono altro che una proiezione del reale. Lo dice anche l’uomo-panino per strada (ovvero, la comparsa che lo interpreta): “non siamo reali”, sfoggiando un cartello con su scritto “i nostri ricordi sono impianti di quelli su Terra 2”. E quel 2 sembra un punto interrogativo.
“Siamo una proiezione dell’immaginazione di Terra Due” ed è la verità: Terra 2 è il cinema.
Concetto ribadito nella sequenza in cui, dal SETI, la scienziata Joan Tallis (Diane Ciesla, attrice teatrale prestata, tra l’altro, alla serie tv Law&Order) prova a comunicare col pianeta gemello e scopre un mondo doppione (nel vero senso della parola): stesse persone, stessi nomi, stesse vite. Terra 2 è nient’altro che uno specchio, una membrana sottile come quella di un monitor e rimanda ad una realtà che sembra tangibile, ma è una copia irraggiungibile.
Il secondo pianeta, quello al di là dello schermo, non è veramente una nuova opportunità. E’ solo una replica sulla quale fantasticare, è il mondo che copia se stesso, creando l’illusione di replicare ogni essere umano, facendone un essere migliore, capace di non commettere gli stessi errori dell’originale. Doppi con cui interagire, per chiedere consiglio, per sfuggire alla solitudine.
In Another Earth, il sogno è conoscere il proprio doppio, incontrarlo, mentre intorno, nessuno comunica con nessuno. A nessuno interessa degli altri che ha intorno.
Incomunicabilità rappresentata dal signor Purdeep (Kumar Pallana), inserviente anziano e saggio, che prima si è accecato per “non vedersi ovunque” (a molti altri è bastato mettere via la tv), poi si è versato candeggina nelle orecchie, per non sentire (non potendo essere impermeabile altrimenti ai continui messaggi e diktat che vengono dal piccolo e dal grande schermo).
Anche i suoni possono essere imitati, duplicati, distorti. Sono lamenti dolci e misteriosi, come il suono misterioso della sega musicale suonata dal protagonista maschile, Mr. Burroughs, scampato all’incidente (il William Mapoter che interpreta Wallis in Mission: Impossible II, diretto da John Woo nel 2000). Ricorda la voce di una donna che canti dal profondo di un abisso, che è quello interplanetario che separa la Terra dal suo doppio.
La verità sussurrata da Another Earth è che siamo come particelle di polvere illuminate dal sole che filtra attraverso i vetri di una finestra. Luccicanti atomi ugualmente dispersi, non indispensabili.
A conferma, la parabola dell’astronauta russo, che trasforma un ticchettio insopportabile in una sinfonia da amare. E’ anche la parabola della protagonista, che ama l’uomo che ha reso infelice e che è radice del suo stesso fallimento nella vita. Impara ad amare la vita stessa ed il suo ticchettio insopportabile (è quello del tempo che passa).
L’apoteosi del doppio è nella scena in cui alcuni fotografi cercano di immortalare la protagonista, mentre una tv li riprende, tutto dentro ad uno schermo cinematografico (l’apice del concetto di immagine nell’immagine di deleuziana memoria).
Non mancano riferimenti alla letteratura, all’arte ed al web.
Al margine di un’inquadratura, spunta la Trilogia di Asimov (tributo al padre della fantascienza moderna).
Il tema del viaggio esplorativo verso Terra 2, organizzato dalla United Space Ventures, è ribadito dal link al sito web della corporation, che, però, nella realtà non esiste (errore di promozione e marketing gravissimo). L’organizzatore di questi viaggi si chiama Keith Harding (un riferimento al Keith Haring della popart statunitense?) e, per ultimo, John Burroughs, il protagonista, che rimanda al noto William Seward Burroughs (scrittore legato alla beat generation“) ed ai suoi romanzi fantascientifici incentrati non sullo spazio esterno all’uomo, ma sullo spazio interno all’essere umano (distorto, mostruoso, incomprensibile).
“Siamo soli?” è la domanda di fondo.
Another Earth sembra rispondere “no, siamo con noi stessi”.