Ideatori: Ryan Murphy e Brad Falchuk
Anno: 2012
Lasciate ogni speranza, o voi che entrate.
Agghiacciante discesa infernale che neanche Dante avrebbe mai concepito in modo così oscuro e perverso.
La seconda stagione di American Horror Story (in onda in Italia su Fox dal 6 Febbraio 2013) si affaccia sul baratro della malattia mentale, del vizio e della lucida malvagità dei personaggi che affollano il manicomio di Briarcliff: sono i favolosi anni ’60 in America, tempo di cambiamenti e grandi contraddizioni, epoca di progresso economico e sociale, nascono le leggi sull’integrazione razziale, i movimenti pacifisti, la cultura hippie, cresce il consumo di droga, si abbassano le barriere conformiste. Ma la controparte conservatrice si fa sempre più dura e rigida nel tentativo di ripristinare quell’ordine morale che caratterizzava i decenni passati, o quantomeno nella speranza di nascondere dietro ad una facciata di rassicurante perbenismo ogni scomoda indecenza.
Su questo principio si fonda l’istituto di Briarcliff: ogni devianza umana, dal maniaco omicida al depresso, passando attraverso le anomalie di ordine sessuale, viene isolata dal resto del mondo.
Pazzie varie ed eventuali, insomma, che non risparmiano nemmeno i medici, gli inservienti e le candide suorine che dirigono la struttura. Anzi, se possibile il male infesta le vite dei cosiddetti normali più che mai, tanto che pare non esserci speranza nemmeno per l’eroina della storia (se così vogliamo definirla), Lana Winters (Sarah Paulson, già comparsa nella precedente stagione di American Horror Story e in alcune puntate di Desperate Housewives): la giornalista che funge da mediatore tra quel mondo di orrori e la normalità, si perde nei meandri della perversione, uscendone non proprio profumata come una rosa. E’ questo forse il refrain della seconda stagione, la continua contaminazione tra bene e male che non lascia scampo a nessuno dei personaggi presenti.
Il villain di questa seconda stagione è il famigerato Bloody Face (vi risparmio il nome dell’interprete per non rovinare il coup de théatre), assassino seriale che uccide donne e le scuoia per farne elegantissimi copri lumi e vari oggetti di arredamento e vestiario; impossibile non richiamare alla memoria l’antesignano di tutti gli scuoiatori di donne, il mitico Buffalo Bill de Il Silenzio degli Innocenti (The Silence of the Lambs, Jonathan Demme, 1991).
Non si fermano qui le citazioni e gli omaggi a famosissimi film entrati a far parte dell’immaginario collettivo: da Arancia Meccanica (A Clockwork Orange, Stanley Kubrick, 1971), a telefilm culto come X-Files (Chris Carter 1993), dall’Esorcista (The Exorcist, William Friedkin, 1973) a Rosemary’s Baby (Roman Polanski, 1968), American Horror Story Asylum rappresenta un calderone di storie, personaggi e orrori che si intrecciano e inchiodano lo spettatore allo schermo. Non manca proprio nessuno: ci sono gli indemoniati, gli alieni, l’angelo della morte, i nazisti, creature mostruose non meglio specificate e sadici di varia natura. Nonostante l’apparente inconciliabilità degli elementi, i due ideatori della serie, Ryan Murphy e Brad Falchuk (autori anche della serie Glee, di tutt’altro genere) sono riusciti a creare un piccolo miracolo in cui tutti i pezzi si incastrano (quasi) alla perfezione.
Il cast in parte riciclato dalla prima stagione, ritrova grandi nomi come Jessica Lange, questa volta nel ruolo di Suor Jude, e Zachary Quinto nella parte del Dottor Oliver Thredson, ma vede anche la partecipazione di altri grandi del cinema quali Joseph Fiennes (debuttò con Bertolucci in Io ballo da sola, 1996) e James Cromwell (uno dei protagonisti di Invito a cena con delitto, Murder by Death di Neil Simon, 1976).
Forse è proprio questo ripetersi degli attori (molti sono stati riconfermati anche per la terza stagione, AHS Coven) la croce e la delizia della serie: infatti, accanto alla probabile fidelizzazione dello spettatore che ritrova visi familiari nonostante il cambio di scenario e trama, il rischio è al contempo quello di dare una virata eccessiva e spiazzante cucendo su immagini identiche caratteri completamente diversi.
Meriterebbe un’ampia parentesi la colonna sonora, in particolare il motivetto “Dominique” che si ripete in quasi tutte le puntate come nenia calmante per i pazienti. La canzoncina infantile ricorda molto la litania cantata in Profondo Rosso di Dario Argento (1975): in entrambi i casi la sonorità fanciullesca stride con il contesto macabro in cui vive, e decisamente contribuisce a rafforzare l’atmosfera angosciante. La vera storia di questa Dominique è altrettanto interessante: la canzone naque nel 1963 dalla voce di Jeanine Deckers, detta Sœur Sourire (Suor Sorriso), una religiosa belga appartenente all’ordine domenicano. Il pezzo ebbe un tale successo a livello mondiale che la spinse ad abbandonare la vita conventuale per dedicarsi al canto. L’insuccesso delle seguenti opere però la fece entrare in una spirale di depressione che culminò nel 1985 nel suicidio suo e della compagna di vita.
Insomma, una chicca dietro l’altra in questa seconda stagione di American Horror Story, a partire dalla sigla iniziale creata da Kyle Cooper che già da sola basterebbe a far comprendere l’elevato tenore estetico del progetto.
In attesa della terza serie, dunque, chapeau ai due autori Ryan Murphy e Brad Falchuk per aver partorito tali incubi e ci si augura che non smettano proprio ora di mangiar pesante prima di andare a dormire!