The walking dead

The walking dead

Regia: Frank Darabont
Anno: 2010-in corso

E’ affidato a Frank Darabont (Sepolto vivo, 1990; Il miglio verde, 1999; The Mist, 2007) l’adattamento per il piccolo schermo dell’omonima serie a fumetti nata dalla prolifica penna di Robert Kirkman (Capitan America, Fantastici 4, Ultimate X man) e illustrata da Tony Moore (Punisher e Venom, per la Marvel) e Charlie Adlard (The X-files e Bat-man/Scarface, Dc Comics).

La serie narra delle vicissitudini di un gruppo di sopravvissuti che vaga in un mondo post apocalittico, invaso da famelici morti viventi, alla continua ricerca di un rifugio, di un luogo che possano chiamare casa, dove (soprav)vivere. Loro guida nel travagliato cammino è il poliziotto Rick Grimes, egregiamente interpretato dall’inglese Andrew Lincoln, già noto per la sua partecipazione a diverse serie tv, tra cui spicca certamente After Life (serie creata da Stephen Volk, trasmessa in Inghilterra, tra il 2005 e il 2006, e, a partire dal marzo 2006, anche in Italia), e per opere cinematografiche come L’amore fatale-Enduring Love (Roger Michell, 2004) e Il Truffacuori (Pascal Chaumeil, 2010), nel quale recita al fianco della ex signora Depp, Vanessa Paradis.

La vicenda rappresentata è corale ed esige che attorno a questa figura di leader carismatico si assiepino numerosissimi altri personaggi che si alternano di volta in volta nel ruolo di comprimari, dando vita a un esteso reticolo di relazioni interpersonali e percorsi umani.

È questa pluralità di caratteri e rapporti che preserva la serie dal rischio della ripetitività cui si andrebbe incontro se il tema unico fosse quello della sopravvivenza e della lotta contro gli zombie, che certamente offre motivi di elevata spettacolarità (lo splatter estremo, l’orrorifico) ma che si ripete, con varianti minime, sempre uguale a sé stessa nei vari episodi.

Due le matrici spettacolari che creano interesse per The Walking Dead: il classico repertorio di decomposizioni orripilanti del corpo, spargimenti di interiora e morti violente che a partire da L’isola degli Zombi (“White Zombie”, Victor Halperin, 1932) si è affinato in decenni di filmografia zombesca, fornisce una serie di momenti dal forte impatto spettacolare, la cui fruizione, però, è episodica e reiterativa, mentre la narrazione relativa agli sviluppi delle varie vicende umane dei personaggi, che non si esaurisce mai in un unico episodio, fonda le ragioni di un interesse che si dispiega nella durata, creando aspettative e curiosità che solo la visione degli episodi a venire potranno soddisfare.

Il complesso attorico è mediamente di buon livello e trova punte di particolare pregio nelle interpretazioni di Lincoln (Rick), che ci restituisce la figura di un leader dotato di una umanità sfaccettata e densa di contrasti interiori, dell’attempato Scott Wilson (L’ultimo Samurai, Edward Zwick, 2003; Dead Man Walking, Tim Robbins, 1995; A Sangue Freddo, Richard Brooks, 1967), che fonda il personaggio di Hershel Greene su una recitazione pacata e meditativa e di David Morrissey (La ragazza con l’orecchino di perla, Peter Webber, 2003) che a partire dalla terza stagione interpreta Il Governatore, il cattivo assoluto, la cui dualità interiore è ben rappresentata dai contrastanti registri recitativi che adotta l’attore.

Tra i maggiori pregi della serie sicuramente indicherei la cura particolare dedicata agli effetti speciali ed al trucco: i morti viventi che assediano Rick e compagni sono tra i più credibili e ripugnanti che si siano visti in questi anni, e i vari episodi di splatter spinto che ricorrono con regolarità riescono a disgustare anche i palati meno sensibili.

La narrazione spezzata e discontinua in The Walking Dead riveste un ruolo strategico di prim’ordine. Ogni puntata prevede diverse narrazioni parallele, relative a personaggi, piccoli gruppi che agiscono separatamente, o differenti accadimenti. Ognuna di queste assume una struttura in crescendo, che è stata pensata, cioè, con il preciso intento di far provare allo spettatore un aumento della tensione emotiva, culminante in un picco finale dalla carica particolarmente drammatica o che comporta una risoluzione definitiva degli eventi.

Uno studiato montaggio in parallelo alterna di continuo scene provenienti da queste varie narrazioni parziali, operando sospensioni strategiche nell’esposizione di ciascuna vicenda. Ogni interruzione è collocata in maniera tale da lasciarci sempre con un chè di irrisolto, col fiato sospeso e bisognosi di conoscere uno sviluppo che viene continuamente rimandato per il subentrare di un altro troncone narrativo. Il meccanismo non è certo originalissimo, anzi in questo tipo di produzioni è comprovato, ma essendo usato con scaltrezza riesce il più delle volte a produrre l’effetto di mantenere attenzione e tensione alte per tutta la puntata, preparando sapientemente i vari climax finali con adeguati crescendi che spesso riguardano anche le modalità stilistiche adottate (montaggi più frenetici in corrispondenza dei picchi emozionali, sonoro più aggressivo o fortemente manipolato, utilizzo di inquadrature destabilizzanti, con forti mossi, sfocature, effetti di rallentamento ecc).

Per chi fosse interessato a una fruizione discontinua della serie, magari operando solo una selezione delle puntate migliori, tanto per prendere confidenza con il mondo orrorifico di The Walking Dead, consiglio tutta la prima stagione, costituita di soli sei episodi al fulmicotone. Nella stagione due, i picchi di qualità e ritmo narrativo sono più concentrati nei primi quattro episodi e nei tre finali. La stagione in corso vedetela tutta.

The Walking Dead piacerà certamente alla vasta massa di consumatori di cinema splatter (i vari Resident Evil di Paul W.S. Anderson, il ciclo inaugurato da 28 giorni dopo di Danny Boyle, la serie tratta dal videogame Silent Hill diretta, per ora, da Christophe Gans e Michael J. Bassett, il ciclo dedicato da Sam Raimi alle case maledette Hostel di cui due diretti da Eli Roth e uno da Scott Spiegel, i film del sanguinario Rob Zombie, e simili), con un’occhio di riguardo per quelli che già seguono serie a tematica orrorifica o legata alle mutazioni, magari disgustose, del corpo (Teen Wolf, American Horror story, Supernatural, True Blood, Visitors, X-files e simili). Anche i fedeli di Falling Sky potrebbero appassionarsi a The Walking Dead per via dell’ambientazione post-apoclittica che si ritrova in entrambe le serie, e per la messa in rappresentazione delle dinamiche umane e di sopravvivenza all’interno di un gruppo.

La fascinazione prodotta da The Walking Dead, può essere spiegata anche facendo ricorso a categorie psichiche di una certa complessità: la serie sembra infatti studiata al fine di mettere in scena alcune tra le nostre paure archetipiche e provvedere alla loro simbolica eliminazione.

Elemento chiave di questo insieme di strategie è la figura caracollante e disgustosa del morto vivente.

La rappresentazione della morte, degli esseri sovrannaturali, delle divinità dell’ombra e delle forze demoniache, infatti, è una sorta di archetipo rappresentazionale e performativo che accompagna l’uomo da millenni (danze sciamaniche, rituali religiosi e di corteggiamento, rappresentazioni sacre, forme teatrali e, ovviamente, cinema ecc.).

Nel confinare le fobie culturali di cui questi esseri immaginifici sono incarnazione scenica (paura della morte, dell’ultraterreno e sovrannaturale, orrore per la corruzione del corpo) entro la regione della finzione e dello spettacolo, l’uomo le esorcizza, le depotenzia dal punto di vista del grado di realtà che possiedono e, così facendo, le allontana da sé.

Non è da escludersi, quindi, che una delle ragioni di adesione psicologica alla serie sia da ricercarsi proprio in una qualche forma di rassicurazione inconscia che fornisce relativamente ai timori archetipici legati alla morte e alla sovversione delle regole che governano l’ordine naturale dell’esistenza degli uomini.

Il corpo in disfacimento dello zombie, certamente, è una figurativizzazione dei timori legati al trapasso, mentre il suo tornare ad una forma latente di esistenza terrena ha a che fare con il terrore della sovversione delle regole di natura, di cui il ritorno dei morti rappresenta solo un caso particolare e specifico.

Questa chiave di lettura, peraltro, è corroborata da un dato puramente numerico: a fronte delle copiose uccisioni di non morti cui assistiamo con puntualità in ogni episodio, corrisponde un ridotto numero di perdite umane. Questo fatto, su un piano di lettura squisitamente simbolico e inconscio, ci restituisce l’idea della vittoria dell’umano e del vivente su ciò che umano non è, o che non lo è secondo l’ordine di natura a noi noto, una sorta di ri-affermazione della nostra identità di specie e del nostro mondo.

Tutto ciò contribuisce non poco ad amplificare quella funzione di inconsapevole rassicurazione di cui dicevo e che può influire sull’indice di gradimento di The Walking Dead.

Ma l’azione dell’uccidere i non morti esprime un valore di eliminazione simbolica anche nei confronti di fobie culturali legate alla condizione dell’individuo nell’attuale società dei consumi e della massificazione omologante della cultura. Coloro che prima erano umani, e dunque dotati di una specifica identità fisica ed emozionale, che avevano una coscienza e facoltà volitive, rinascono deprivati proprio di questi aspetti che li qualificavano in quanto uomini. I morti viventi o biters (“azzannatori”, secondo la dicitura adottata dai personaggi della serie), risorgono come identità collettiva e massificata, deprivata di qualità emozionali e intellettive e destinata ad esercitare una sola funzione: nutrirsi.

Non è difficile ritrovare in questa condizione la proiezione di striscianti paure che si sono generate in un contesto sociale, economico e culturale che tende a considerarci certamente più come massa indistinta che non come individui, che tiene conto del nostro esistere unicamente in quanto consumatori, e non come soggetti di sentimenti, desideri e pensieri, che cerca l’omologazione dei bisogni e delle reazioni emotive, piuttosto che l’esplicazione della loro unicità.

Rick e soci, dunque, non uccidono solamente dei mostri ( l’etimo latino, non a caso, si ritrova nel verbo monere, cioè avvertire, ammonire) ma anche le nostre paure profonde, quelle legate al contemporaneo, alla nostra insignificanza rispetto al potere economico che governa il mondo.

The Walking Dead, tuttavia, non cede alla facile tentazione di un semplice schema duale e oppositivo che vede gli umani, cioè i buoni, contrapporsi ai cattivi cioè i mostri. Infatti, se da un lato la vita non vita dei morti che camminano suscita in maniera diretta l’interrogativo circa la reale essenza della nostra umanità, dall’altro anche certi comportamenti degenerativi degli umani sono in grado di porre con forza l’interrogativo metafisico relativo alla definizione della persona, ricordandoci che proprio dentro di noi, magari nascoste dietro la coltre caliginosa delle convenzioni sociali e della buona coscienza, la bestialità più pura e la negazione intrinseca del nostro essere uomini spesso trovano un fertile terreno in cui gettar radici.

Cosa resta della nostra humanitas quando, forzati dalle circostanze, accettiamo di compiere azioni tremende, o ripugnanti? Sono ancora propriamente umani quei vivi che si abbandonano alla violenza e al saccheggio, continuamente disposti a barattare la propria sopravvivenza con la vita altrui?

Il personaggio che funge da catalizzatore per quest’ordine di considerazioni è certamente Rick, che esercitando una funzione di guida e reggenza sul gruppo, impone agli altri la propria etica, la propria concezione dell’autorità, il proprio senso della comunità e dei rapporti tra individui.

Ora, non c’è alcun dubbio sul fatto che i processi di focalizzazione e ocularizzazione (cioè quei processi filmici  che consentono l’identificazione dello spettatore in un personaggio e l’adesione al suo modo di pensare e agire) ci portano a identificarci con la sua visione delle relazioni umane e della leadership, equilibrata e filantropica, a condividere con lui un’idea di società retta da ideali democratici in cui decisionismo e comportamenti violenti siano limitati ai casi di necessità estrema o di sopravvivenza della comunità stessa.

Questa weltanschauung (visione del mondo) condivisa tanto dal gruppo dei sopravvissuti quanto dagli spettatori si afferma nel corso delle puntate attraverso una serie di confronti con visioni contrastive incarnate da altri personaggi.

Basti pensare al caso dell’esiziale confronto con l’amico-rivale Shane, al secolo Jon Bernthal (World Trade Center, Oliver Stone, 2006; Una notte al museo 2 – La fuga, Shawn Levy , 2009; L’uomo nell’ombra, Roman Polanski, 2010), che porterà alla sconfitta della sua morale utilitaristica e poco attenta ai valori umani e alla sua morte per mano dello stesso Rick. O si pensi al confronto ancora in corso, ma dai prevedibili esiti, che in questa terza stagione vede contrapposti nostro poliziotto politicamente corretto e il Governatore, che regge la propria comunità basandosi su una politica della menzogna e del dispotismo (dissimulato).

Il quadro ideale di Rick e, conseguentemente il nostro, risulterà sempre e comunque vincente rispetto agli altri, in grado cioè di salvare più vite e di rappresentare meglio quei valori di solidarietà, di condivisione e reciproca fiducia che, almeno idealmente, sarebbero dovuti appartenere alla società umana prima della catastrofe.

Da un certo punto di vista, anzi, il gruppo sembra incarnare una visione migliorata di quest’ultima, nella misura in cui le necessità imposte dalla sopravvivenza in un ambiente del tutto ostile fortificano proprio quegli ideali e quelle qualità umanizzanti del rapporto di relazione che spesso, nell’opulenta e carrieristica quotidianità che ci appartiene, vengono messi in secondo piano.

Certamente questo continuo sentirsi dalla parte del giusto ha un suo ruolo nell’aggregare consenso intorno alla serie.

Insomma una serie altamente spettacolare e avvincente per contenuti, sostenuta da una narrazione ritmica e generalmente priva di tempi morti (se si eccettuano quei pochi episodi più deboli tutti concentrati nella seconda stagione), in cui le ragioni di interesse hanno spesso motivazioni culturali non del tutto superficiali. Ovviamente, per contesto e scelte di gusto la sua visione pare maggiormente consigliabile ad un pubblico che ami le emozioni mozzafiato e le immagini forti, ma nel complesso possiamo parlare di un prodotto in grado di suscitare un vasto consenso.