Solo gli amanti sopravvivono

Regia: Jim Jarmusch

Anno: 2013

Adam (Tom Hiddleston), musicista bohemien e con tendenze suicide, vive in isolamento nella sua casa di Detroit, circondato da strumenti musicali di ogni genere ed epoca. Sua moglie Eve (Tilda Swinton), nell’esotica Tangeri, si nutre di libri e serate in compagnia dell’amico Marlowe (John Hurt). Tutto normale, se non fosse che si tratta di vampiri. Non belli e dannati come Louis e Lestat di Intervista col vampiro (Neil Jordan, 1994), né giovani e ribelli come i teenager slavati di Twilight (Catherine Hardwicke, 2008), ma esseri tristi, disadattati, sociopatici e fisicamente inquietanti. Adam e Eve si consolano l’un l’altra con il loro amore reciproco ed esclusivo, impermeabili al resto del mondo. Un mondo che è abitato da zombie, come li chiamano loro, cioè gli umani di nuova generazione, stupidi e insignificanti che fanno rimpiangere la belle epoque in cui Adam passeggiava a braccetto con Schubert e Marlowe faceva il ghost writer di Shakespeare. Si stava meglio quando si stava peggio, insomma. Mettiamoci anche che i tempi moderni hanno reso meno sicure le sbevazzate ematiche e i due amanti sono costretti a rifornirsi di sangue pulito presso gli ospedali locali. Si sa, certe pratiche necessitano di precauzioni. Ma questa routine vampiresca viene sconvolta dall’arrivo a Detroit di Ava (Mia Wasikowska), sorellina di Eve, che con il suo comportamento poco bon-ton rischia di rompere la cupa armonia, nonché le scatole, dei due piccioncini.

E’ difficile dire qualcosa di negativo su una pellicola figlia di uno dei più incensati cineasti americani, presentata al Festival di Cannes 2013 e accolta da applausi scroscianti e recensioni entusiastiche.

Tuttavia cercherò di fare del mio meglio.

Perché solo gli amanti sopravvivono è tedio allo stato puro. Qualche idea felice c’è, ma annega in un oceano di decadente nulla. E la domanda che riecheggia durante le due interminabili ore di proiezione è: perché?

Se l’intento era quello di riscrivere il personaggio vampiro, dobbiamo dare a Jim una bella pacca consolatoria sulla spalla e fargli presente che Il Vampiro tout court ha raggiunto il suo apice con il romanzo di Anne Rice (nonché con il sopracitato film di Jordan) in termini di spessore intellettuale, fascino, sensualità e ambiguità morale. Tutto ciò che è venuto dopo, compresi questi due scialbi artistoidi postmoderni dai canini allungati, è fuffa.

Ma certo, il vero nocciolo quella questione è un altro: la rivelazione che il reietto sociale è in realtà l’unico saggio, anticonformista, genialoide, autentico fico incompreso. Il tutto intriso da un romanticismo alla Peynet. Un amore tenero e poco appropriato per questi Adamo ed Eva vampiri, che però ha il vantaggio di salvarli dalla noia, dalla solitudine, dalla bruttura del mondo moderno. Perché come dice il titolo, solo gli amanti sopravvivono. Gli amanti del sapere, dell’arte, della letteratura, della scienza.

Sì, d’accordo Jim, ma il pubblico agonizza.

In definitiva la storia di due personaggi di buona cultura e intelligenza superiore alla media che passano la vita (e si parla di secoli) a crogiolarsi nella loro esclusiva umanità e a lamentarsi di quanto il resto del creato – ça va sans dire – sia inetto, banale e conformista. I denti appuntiti sono un surplus inutile: poteva esserci una coppia di immigrati ispanici, di omosessuali, di laureati in lettere, una minoranza a caso, insomma, e il compitino sarebbe riuscito ugualmente (personalmente, parlando di disadattati egomaniaci, preferisco i nerd di The big bang theory che almeno hanno il merito di essere simpatici).

Bei tempi quelli di Coffee and Cigarettes (2003) e Broken Flowers (2005), quando Jarmusch era capace di regalarci film dall’incedere lento, ma permeati da una sottile ironia, che qui, purtroppo, nonostante flebili tentativi, non decolla. Non manca la solita cura registica e l’amore per il dettaglio che, se non altro, permettono di apprezzare l’opera da un punto di vista estetico. Hiddleston e la Swinton sono, al solito, due animali da palcoscenico e fisicamente azzeccatissimi per la parte, ma si sente la mancanza dell’attore feticcio di Jarmusch, Bill Murray. Certo non avrebbe avuto il physique du role per interpretare un vampiro…anche se in quanto a personificazione dell’animo depresso, non avrebbe da insegnare niente a nessuno.   

Dunque basta un’efficace fotografia e un buon cast per gridare al capolavoro? Basta sbattere sul piatto delle musiche underground, snocciolare due o tre riferimenti eruditi, conditi da una manciata generosa di atteggiamenti intellettualoidi? Di solito no, ma se ti chiami Jarmusch, aiuta.

Questa volta il regista statunitense si è sbrodolato addosso e ha costruito una storiella banalotta e ingiustificatamente lunga per dare libero sfogo ad un citazionismo sterile e autocompiacente.

Snobismo e noia.