Like crazy

Regia: Drake Doremus
Anno: 2011

Umano, troppo umano è l’amore! Una sentimentale fiaba d’altri tempi vissuta, ai giorni nostri, dai sospiri ansimanti d’una giovane coppia.

Due occhi, due sguardi penetranti, due respiri. È amore. Anna (Felicity Jones) e Jacob (Anton Yelchin) sono animati da un sentimento tenero e inossidabile. Lei sussurra a lui le pagine trasognate del proprio diario, lui disegna per lei la sedia sulla quale potrà scrivere della loro passione. Los Angeles, un’aspirante giornalista britannica e un designer, poche parole e tanta poesia. La loro storia naviga su acque serene sino a quando Anna non è costretta a far ritorno, forse in maniera definitiva, in Inghilterra.

Un’opera, quella di Drake Doremus, che decanta l’assolutezza affettiva con una mirabile asciuttezza espositiva. Due delicati protagonisti dall’indole adamantina, un romantico binomio che conserva, intatto, il pudore cristallino dell’emozione ingenua, due individui che parlano, in maniera credibile, di un amore incredibile.

La luminosità costante delle scene rimarca il candore perlaceo dei corpi, che paiono scultoree presenze neoclassiche imprigionate nei quartieri americani del terzo millennio. La perfezione e l’universalità del loro legame sembra riecheggiare il verso essenziale di Neruda: il loro amore è unico e primordiale, lucido come fiamma, semplice come anello. Anna e Jacob sono Tristano e Isotta nell’era contemporanea, nulla scalfisce la loro condivisa sfera emozionale, nemmeno l’irriducibile separazione geografica.

Like Crazy (2011), titolo del lungometraggio, è la formula incisa sulla sedia progettata dall’uomo per la sua musa ispiratrice: amare sino alla follia, sino all’incoscienza, amare con le corde della ragione e della pazzia.

La maturazione stilistica del cineasta è palpabile in questa pellicola vincitrice del Gran Premio della Giuria U.S. Dramatic, durante la ventisettesima edizione del Sundance Film Festival; la pièce sembra portare a compimento quella schiettezza emotiva che nei personaggi di Spooner (2009) era solo abbozzata suscitando, spesso, momenti d’ilarità. Anche Spooner e Rose vivono l’amore e lei, come Anna, dovrà separarsi dal proprio compagno per ritornare nelle Filippine, ma il loro legame sembra solo schizzato distrattamente assumendo, talvolta, le goffe tinte del divertissement.

L’ultima fatica del regista si concentra ossessivamente sull’analisi comportamentale dei protagonisti, relegando in penombra le altre sparute sagome che fungono esclusivamente da vacui riempitivi. Poco approfondita la fisionomia psicologica di Sam (Jennifer Lawrence) e Simon (Charlie Bewley), provvisori conviventi dei due innamorati e vittime passivamente consenzienti dei loro contraddittori atteggiamenti. Il regista non focalizza mai l’occhio sul loro disagio di amanti feriti, delusi, frustrati, ma sempre sull’eterno ritorno del travolgente desiderio di Anna e Jacob, leitmotiv della trama cinematografica.

È un testo che commuove nella sua linearità, che piega l’animo nell’essenzialità della narrazione, che sconvolge e turba perché capace d’osservare e perforare la sfera dell’imponderabile, like crazy! Solo l’irrazionale e costante nostalgia, solo l’irrefrenabile smania di toccarsi nuovamente può condurre al desiderato approdo.

Non rimane che un bicchiere di whisky, quasi magico sidro dell’amore, un dolce bacio rubato fra le bianche lenzuola, culla di odori e sapori, e un ti amo che profuma già di ebbrezza. La sete del cuore è tutta qui.

La romantica vicenda sembra quasi costituire il preludio a Le Parole che non ti ho detto (Message in a battle, 1999): i ragazzi di Doremus sembrano fondare quell’idillio amoroso che trova perfetta e drammatica compiutezza nelle lettere di Catherine, nel lungometraggio di Luis Mandoki. La penna ingenua del diario di Anna, eterea lolita del lungometraggio pare ricalcare, forse con tocco ancora immaturo, le righe appassionate delle lettere di Catherine, moglie defunta di Garret (Kevin Costner).

Un film che non confonde, che non strania, che mantiene un languore costante senza mai decadere nel patetismo. La prospettiva moderna di un sentimento che riprende, con tocco per nulla manieristico, i cliché letterari degli eterni connubi amorosi e che dona, come ultimo lascito, la cupida voglia di crederci ancora.

Imperdibile.

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