Diario di uno scandalo

diario di uno scandalo

Regia: Richard Eyre
Anno: 2006

“C’è una grande distanza tra la vita che sogni e quella reale”.

Barbara Covett (Judi Dench) è una vecchia insegnante, astiosa e disillusa, la cui esistenza si consuma passivamente tra la St. George, una mediocre scuola londinese, e una casa di periferia, in cui vive isolata dal resto del mondo con la sola compagnia di un gatto. L’unica consolazione a fronte di questa esistenza insignificante, sembra essere un diario che Barbara aggiorna meticolosamente, riversando quotidiane frustrazioni lavorative e insoddisfazioni personali.

Un giorno arriva alla St. George una nuova professoressa di arte, Sheba Hart (Cate Blanchett) che, con la sua freschezza e il tipico entusiasmo di un’insegnante al debutto della carriera scolastica, riesce a conquistare colleghi e studenti. Barbara dapprima la esamina con sguardo curioso e uno sprezzante atteggiamento di superiorità, ma anche lei finisce per subire il fascino della nuova arrivata, tanto da vedere in Sheba una possibile alleata.

Barbara inizia a tessere una trama di inganni e vessazioni psicologiche per insinuarsi nella vita di Sheba, per diventare sua amica, confidente e forse, consciamente o no, qualcosa di più. L’occasione per intrappolarla definitivamente in questo rapporto ambiguo si presenta con la scoperta da parte dell’anziana donna della tresca nata tra Sheba e Steven Connelly (Andrew Simpson), uno studente quindicenne…

Il regista britannico Richard Eyre e lo sceneggiatore Patrick Marber  (celebre autore di Closer , dramma teatrale del 1997 di cui Mike Nichols diresse l’omonima trasposizione cinematografica)  fanno un’ottima opera di adattamento del romanzo di Zoë Heller (Notes on a Scandal – La donna dello scandalo, 2003), contando sull’interpretazione straordinaria della Dench e della Blanchett (che nel 2007 si aggiudicarono la nomination agli Oscar).

La storia è quella di due donne, due generazioni diverse, ugualmente intrappolate nella noia delle loro vite, nella stantia ipocrisia borghese. Così questa realtà apparentemente tranquilla emerge in tutta la sua imperfezione, nella ricerca di un’evasione da quella stringente quotidianità che forse tutti prima o poi rifuggono in modi diversi. Quanto più insoddisfacente è l’esistenza, tanto più è radicale la rottura degli schemi e la sterzata in direzione opposta: nel caso di Sheba, un semplice adulterio non sarebbe bastato per spezzare i legami con il marito e la famiglia intera. Il tradimento doveva avere connotati fortemente trasgressivi e proibiti per rappresentare un efficace contraltare da parare dinnanzi ad un marito più vecchio di lei e un figlio handicappato. I rapporti sessuali consumati in segreto con il giovane amante nell’aula di scuola, nei campi dietro la ferrovia, nella dependance di casa, la trasformano in un’adolescente che potrebbe ancora avere la possibilità di rifarsi una vita diversa da quella avuta finora.

Barbara ricalca a modo suo lo stesso tentativo di fuggire da una solitudine non scelta, ma capitata. Si sa però, le riluttanze morali con l’età si incancreniscono e diventano più dure da scalfire: le sue pulsioni verso donne più giovani non vengono mai affrontate per ciò che sono realmente, e cioè una più che probabile tendenza omosessuale, ma vengono perseguite con l’ambiguità e le resistenze di chi nasconde la verità a sé e al mondo. La rigidità del carattere la porta ad avere rapporti ossessivi e disfunzionali nei confronti di chi vorrebbe conquistare, fino ad arrivare ad architettare dei veri e propri sequestri psicologici per avere il pieno controllo della persona desiderata e del desiderio stesso.

Facile sarebbe cadere nel cliché: la vecchia zitella gattara, la quarantenne in cerca di attenzioni, il ragazzino con una cotta per la professoressa. Inciampare nel ridicolo sarebbe stato un attimo. Nonostante le premesse però, la banalità non si manifesta, anzi, l’umana drammaticità con cui i personaggi emergono da questo sfondo  di ordinaria insoddisfazione colpisce dritto allo stomaco. Quasi come volessero dirci: “Può accadere a chiunque”.

Film claustrofobico, denso, soffocante, più che il diario di uno scandalo è la cronaca di una carneficina domestica, dove aguzzino e preda non sono così ben definiti come potrebbe sembrare ad una prima visione: la sottile linea tra affetto e amore, tra passione e ossessione, tra legalità e illegalità percorre tutta la storia lasciando in sospeso il giudizio.

Il senso di disagio che rimane dopo la visione del film può essere scambiato per disgusto verso comportamenti che possono essere a giusta ragione ritenuti immorali, morbosi, patologici…ma ad una più attenta analisi, l’imbarazzo potrebbe nascere dall’ambiguità della colpa, dal non sapersi o potersi schierare contro un tentativo, seppur sbagliato, di risalire il baratro, da un senso di vaga comprensione per le due donne, per la solitudine di entrambe e la vacuità del mondo che le circonda.

La mannaia sale sulle teste delle protagoniste, ma fa fatica a calare.

Da vedere.