American pastoral

Regia: Ewan McGregor

Anno: 2016

Dopo il successo mondiale del romanzo di Philip Roth, premio Pulitzer per la narrativa 1998, American Pastoral arriva anche sugli schermi cinematografici.

A tradurre in immagini le non facili pagine di Roth, così dense di flusso di coscienza e di memoria, è Ewan McGregor, che esordisce alla regia adattando un romanzo complesso, uno spaccato di storia americana, già  oggetto negli ultimi anni di tentativi di trasposizione.

American pastoral è un po’ la parabola dell’american dream e il suo necessario infrangersi di fronte agli avvenimenti della vita e della storia. Seymour Levov (Ewan McGregor) è un giovane biondo e dagli occhi azzurri, che nell’immediato dopoguerra rappresenta nel suo paese del New Jersey l’immagine del vincente. Brillante e sportivo, ammirato da tutti, ha davanti a sé una strada sicura verso il successo, in un’America che ancora guarda con fiducia al futuro. Dopo il matrimonio con la bella Dawn (Jennifer Connelly), ex Miss New Jersey, passa alla guida della ditta del padre, che produce guanti, e costruisce un armonioso quadretto famigliare in una grande casa immersa nel verde.

La nascita della figlia Merry segna tuttavia l’inizio dello sfaldarsi di quell’idillio apparente: la piccola infatti cresce in un ambiente ovattato e protetta dall’amore dei genitori, ma ha un piccolo difetto, un’incrinatura che stride con la perfezione di un padre brillante e di una madre reginetta di bellezza: la bimba è affetta da balbuzie. Non che i genitori diano troppo peso a questo difetto. Viene seguita da specialisti. Non viene nemmeno dato troppo peso ad una velata passione della bambina per il padre e ad un latente fastidio verso la madre, la cui bellezza è quasi un’ingombrante ombra che segue Merry fin da piccola.

Quando l’America perde per sempre la sua innocenza allo scoppio della guerra in Vietnam, un’ormai adolescente Merry (Dakota Fanning) diventa critica verso la società  americana e verso il modello familiare, legandosi ad associazioni politiche di estrema sinistra. Le preoccupazioni dei genitori cominciano ad affiorare, fino a quando la giovane si rende responsabile di un attentato terroristico all’ufficio postale del paese, in cui resta ucciso un uomo, e fugge per sempre di casa.

Ormai è chiara anche per la famiglia-modello la fine del sogno americano e lo sgretolarsi inevitabile di tutte quelle fragili certezze in cui aveva fino ad allora creduto. Tradito e poi lasciato dalla moglie, lo Svedese va alla ricerca della figlia per anni, fino a quando riesce a rintracciarla in uno scenario di rovine quasi apocalittico, distrutta nel fisico e nello spirito. I vani tentativi per riportarla a casa, in nome di quell’amore che prova ancora per lei, non faranno altro che accentuare l’impossibilità  che le cose possano ricomporsi.

Il film condensa il lungo romanzo di Roth in meno di due ore, procedendo un po’ a tappe schematiche e poco fluide. La sceneggiatura di John Romano, autore di serie televisive, si limita ad illustrare gli avvenimenti fondamentali del romanzo e la regia la asseconda, in modo sobrio e controllato.

Si finisce così col seguire una storia certamente interessante, ma raccontata con poche sfumature e poco incisiva nel definire la sconfitta dura e amarissima di un uomo buono e onesto di fronte al dramma della realtà. L’America, che rappresentava per lui, quando era giovane, un futuro vincente e pieno di fiducia, è ora causa stessa della sua rovina e del suo dramma familiare.

Ben recitato da Jennifer Connelly (Requiem for a dream, A beautiful mind, Blood diamonds) e da Dakota Fanning (Mi chiamo Sam, Effie Gray, Franny), il film trova forse il suo anello interpretativo più debole proprio in Ewan McGregor (Velvet Goldmine, Moulin Rouge!, The impossibile), poco credibile sia come americano prestante e vincente nella prima (e nemmeno tanto approfondita) parte, sia come padre dolente nell’ultima. E proprio il dramma della sconfitta finale manca nel film, tutto raggelato in una confezione ben fatta, ma un po’ incapace di osare.