12 anni schiavo

12 anni schiavo (1)Regia: Steve McQueen
Anno: 2014

La frusta e il corpo

Da vittime (auto)immolate in carnefici di sé (Hunger, 2008), dall’essere schiavi compulsivi/abusivi del proprio corpo (Shame, 2011) al ritrovarsi schiavi per non esserne più padroni. Dopo l’annientamento claustrofobico e il gelo anaffettivo dell’uomo contemporaneo, con 12 anni schiavo Steve McQueen si trova impaludato nella Louisiana schiavista di metà ‘800, proseguendo il discorso sul corpo e il suo svilimento.

Ancora un dramma del singolo ad aprire uno squarcio grondante sangue sulla Storia a stelle e strisce, dove le stripes sono però i colpi di frusta. Un altro corpo con piena valenza politica, quello di Solomon Northup. A scontare sulla pelle tagli incancreniti e ferite aperte di un passato atroce. Scavate nei primi piani dolenti e prolungati del volto di Chiwetel Ejiofor.

Un corpo che nemmeno può scegliere l’autodistruzione. Perché già sfiancato, annullato a priori. Non più terreno di rivendicazione dell’identità negata (come in Hunger). Perché di identità non restano tracce, cancellate a nerbate. Solo un corpo-massa-lavoro soppesato in base alle libbre di cotone prodotte giornalmente. Denudato di sentimenti e pulsioni affettive. Svuotato di ogni sovrastruttura linguistica e culturale. Esperito soltanto nell’evidenza fisica dell’esposizione impotente ai soprusi.

McQueen sferra le accuse con semplici movimenti di macchina: dalla cella sotterranea di Solomon, la cinepresa risale verso l’alto il muro di mattoni, fino a inquadrare la skyline di Washington, il Campidoglio sullo sfondo. Solomon rinasce nel buio, nudo e in catene. Tra schiocchi di frusta sbattuti in faccia allo spettatore, rumori ossessivamente amplificati, stridori raschiati e boati sinistri dello score di Hans Zimmer, i suoi “vagiti” d’aiuto restano inascoltati. Dietro di lui scorre una muta indifferenza, come una scia di acqua spumosa tra le pale del battello diretto all’inferno (guardacaso, la stessa immagine dell’incipit di The Master, 2013, altro film di servi e padroni).

In una terra di sozzi mercanti di umani, liberi perché schiavi dei soldi e non della coscienza (il negriero di Paul Giamatti ha nome Freeman), gli unici cont(r)atti sono quelli di proprietà. La violenza il solo diritto naturale riconosciuto.

12 anni schiavo (2)Schiavi in un Amen

Se il Calvin Candie di Django Unchained (2013) affondava le radici del servilismo nero in uno scellerato scientismo positivista, scovando la supposta (auto)sottomissione innata del nigger nel calco di una folle evoluzione biologica, padron Epps giustifica l’asservimento con il credo religioso. Punendo il servo ribelle perché così sancito dalle Sacre Scritture, secondo la volontà del Signore. I tagli della frusta smembrano la carne come una piaga biblica funesta il raccolto.

Ma il corpo schiavizzato è solo l’altra faccia del bieco servilismo dell’anima. Ogni rapporto (dis)umano, anche tra bianchi, è incentrato sulla ferrea gerarchia servo-padrone. L’aguzzino ravveduto tradisce pur di apparire servo fedele agli occhi del (suo) proprietario. L’inquietante mostro di autocontrollo e indifferenza wasp incarnato dalla moglie di Epps è una serva raccolta dalla miseria, gelosa dell’ingerenza della favorita del padrone.

La libertà comprata al prezzo della dignità (la signora di colore sposata al possidente bianco, del quale accetta ogni tradimento). Oppure barattata con la sottomissione docile e addomesticata al “buon padrone” (il prigioniero rapito con Solomon).

12 anni schiavo (3)(In)justice for all

Su questa delirante apocalisse della ragione aleggia comunque un senso di giustizia superiore (umana?divina?) che giungerà a punire i colpevoli. Richiamo a una provvidenza anonima più volte reiterato ma solo vagamente consolatorio. Probabilmente indotto dall’ “artigiano umanista” e illuminato di un Brad Pitt che figura non a caso tra i produttori.

A McQueen basta appena qualche sequenza fastidiosamente interminabile per scuotere e percuotere la coscienza dello spettatore. In ansia spasmodica, quasi con il cappio al collo, davanti a Solomon appeso all’albero. Così com’era stretto in fondo al sordido corridoio di Hunger, nella snervante attesa che la sporcizia fosse sciacquata dal pavimento. Qui si esce dalla sala e ancora risuona il rimbombo della frusta. E quasi avvertiamo i lividi pulsare lungo la schiena.