No – I giorni dell’arcobaleno

No – I giorni dell’arcobaleno

Regia: Pablo Larraín
Anno: 2013

Cile, 1988. In pieno regime Pinochet, il dittatore è costretto a indire un referendum sulla sua riconferma a leader assoluto. L’entourage del presidente è certo del sostegno popolare. Mentre i socialisti, scettici sulla vittoria, si affidano all’estroso pubblicitario René Saavedra per una campagna mediatica che conquisti l’elettorato. L’intero Paese ritroverà speranza e il coraggio di lottare per la libertà.

In una sequenza di Tony Manero (2008), Pablo Larraín ritrae il protagonista e un’anziana signora seduti in poltrona a fissare in silenzio un televisore acceso. La vecchia si rivolge improvvisamente all’uomo: “Sapeva che il generale Pinochet ha gli occhi azzurri?”. “No, non lo sapevo”, risponde lui distaccato.

Siamo nel Cile militarizzato del 1978. In cui la rapida diffusione di massa di nuovi apparecchi tv aumenta a dismisura le pompose apparizioni sul tubo catodico di Pinochet, finalmente visibile da tutti “a colori”. La posa austera e l’aura luminosa del grande generale rifulgono nel salotto di milioni di persone. Mentre i suoi sistematici abusi e crimini vengono oscurati dai media.

Passato attaverso Post mortem (2010), cine-autopsia di una nazione spezzata da tumulti, Larraín con  No – I giorni dell’arcobaleno giunge dunque a riprendere il discorso quando il processo di (sovra)esposizione dell’immagine del leader è al culmine di saturazione (fine anni ’80).

Pinochet impera, l’opposizione è censurata. La battaglia per sconfiggere il dittatore si gioca innanzitutto sull’efficacia degli spot elettorali che dibattono quotidianamente sulla permanenza del presidente.

L’unica soluzione per gli sfidanti resta quella di convocare Saavedra (l’ottimo Gael García Bernal), giovane e sfrontato mad man pubblicitario versione cilena. Creativo controcorrente alla Steve Jobs (il primissimo logo Apple non contiene forse le strisce dell’arcobaleno uguali a quelle suggerite da René per la campagna?). Con quella sua attenzione per l’estetica del bello, l’emozionalità, la freschezza e la coolness del messaggio-prodotto.

Nell’incipit promuove bibite simil-Coca-Cola che guardano all’effervescenza giovanile e già contengono in nuce un grido di libertà (“Free”) contro l’oppressione conformista.

Prima del grande salto nella mobilitazione politica, per smuovere coscienze e cambiare il destino del suo Paese. Senza per questo virare sui toni gravi e seriosi che la propaganda istituzionale dei suoi clienti esigerebbe.

Conservando invece una divertita leggerezza di sguardo, nei suoi spot in video. Un occhio sempre ammiccante, ironico e spensierato, anche quando è lucido e consapevole della materia dolente che si trova a trattare.

Si fa centro con l’umorismo bizzarro e l’originalità. Evitando la stanca replica di immagini già viste e metabolizzate fino allo sfinimento (“la copia della copia della copia della copia” e così all’infinito, come dice la moglie di René).

I capi gli rimproverano di oscurare le innumerevoli brutalità imputabili al dittatore. Ma la sua strategia è così coraggiosa proprio perché sceglie di mostrare ciò che per anni è rimasto nascosto e invisibile ancor più delle violenze di regime.

E cioè allegria, calore, solidarietà, serenità e fiducia nel futuro che parevano dimenticate dal popolo cileno. Dissolte dal tessuto sociale (così come le migliaia di desaparecidos svaniti nel nulla) e ora di nuovo in circolo (“L’allegria sta arrivando” è lo slogan principale).

Saavedra (ri)costruisce un’immagine e un gioioso immaginario collettivo. Restituisce vita e vitalità a un paese civile che, non vedendosi e non riconoscendosi più nei racconti dei cinegiornali, credeva di essere scomparso per sempre.

Non è comunque un perfetto eroe morale, il protagonista. Ma un eclettico artista del marketing squisitamente pop.

Nella sua costante altalena tra dimensione alta e bassa, tra realtà e finzione. Tra duri scenari di miseria e insulsa fiction all’acqua di rose. Tra comunicazione politica e melense soap-operas in rosa di cui deve rilanciare l’immagine.

In dialogo con il consumatore più bieco o il cittadino più rispettabile. Ma sempre col medesimo approccio, le stesse formule di base. “Prima di tutto, quello che state per vedere è in linea con l’attuale contesto sociale” ripete ogni volta Renè ai clienti a lavoro finito (frase che sembra inoltre la diretta interpellazione del regista impegnato ad introdurre l’opera allo spettatore). Con la stessa soluzione di dis(continuità). Senza variare filtri. Senza tagli e stacchi netti a separare ambiti profondamente diversi.

Un po’ come la messinscena filmica, che mima il segnale video composito dei vecchi registratori a nastro. Incanalando in un unico, sporco e sgranato flusso audiovisivo materiali di repertorio, telegiornali dell’epoca e riprese con gli attori di oggi. Con il girato del film che diventa indistinguibile dalla patina analogica del footage televisivo d’annata.

A testimoniare come il regista non rilegga la storia a posteriori. Ma ci mostri quel passato come fosse il presente, qui e ora, davanti ai nostri occhi. Quasi fosse lo spettatore odierno a doversi fare un’opinione in vista del voto.

Intenso film sulla potenza della creatività dell’individuo, sul coraggio dell’inconsueto e la forza dell’immaginazione. Uniche armi a disposizione in un regime che soffoca l’identità. Da vedere.