The Wolf of Wall Street

Regia: Martin Scorsese
Anno: 2013

The Wolf of Wall Street è cinema allo stato puro. Il soggetto, tratto dall’autobiografia del broker Jordan Belfort, di per sè non è originalissimo. Solita storia dei cattivi della finanza. Diventa potenza incendiaria nell’affabulazione adrenalica che ne fa Scorsese. Una metafora iconoclasta dell’America pre-crisi? Forse.

Jordan Belfort comincia la sua carriera nel 1987. Ma proprio al suo esordio ecco il venerdì nero. Fine? No, perché Jordan ha un unico obiettivo nella vita: diventare ricco, ricchissimo. Quindi raduna una manipolo di puscher di strada, venditori di fortuna, amici suoi sfigatissimi e mezzi matti e fonda la Stratton Oakmont Company.

Gli Strattoniani sono impresentabili, sempre strafatti, inadeguati, oltraggiosi, politicamente scorretti. Sono dei parvenu, degli anti-wasp irredimibili. Giocano con la vita. Diventano schifosamente ricchi vendendo spazzatura (finanziaria) ai facoltosi americani, sotto la guida indiscussa del loro Wolf,  come lo definirà ad un certo punto il prestigioso Forbes. E quindi lusso sfrenato, sesso spinto, droga a scatafascio  – cocaina e quaalude (stupefacente sintetico a metà strada fra l’acido e il barbiturico). Tutto fin quasi alla nausea, in un eccesso totalizzante,  in un’assurda e grottesca esistenza.

Ma la Stratton Oakmont, come è ovvio, gestisce soprattutto operazioni illegali. Per cui ad un certo punto arriva, puntuale, l’occhio indagatore dell’FBI.  L’anonimo agente Patrick Denham,  uomo dimesso che viaggia in metropolitana, comincia ad indagare su Jordan. Finirà che vince l’FBI. E se anche Jordan se la caverà con poco (perchè collaborerà con i Federali) si fa 3 anni di carcere in Nevada, dove dimentica di essere stato ricco.  Scontata la pena, riprende la sua carriera tenendo seminari sulle strategie di vendita. Ma stavolta si trova di fronte un pubblico diverso, quasi attonito. L’America, nel frattempo, è cambiata?

Il Wolf è lui: Leonardo di Caprio. Un’interpretazione strepitosa, faticosissima, sempre spinta sulla nota più alta, senza mai stonare. Esasperazione e parossismo sono portati all’estremo, fin quasi alla distorsione fisica, ma controllati senza errori o sbavature.  Talento puro.  Il Golden Globe 2014 lo ha ottenuto (Miglior attore in un film commedia o musicale):  che sia finalmente Oscar, dunque! per un attore che da Titanic (1997) in poi sembra non averne sbagliata alcuna.

La regia di Martin Scorsese è praticamente perfetta. Immagini, musica, ritmo e recitazione sono racchiusi magicamente in un unicum che oltrepassa lo schermo, quasi assalendo lo spettatore con la sua potenza espressiva irriducibile.

Unico confronto possibile è con Quentin Tarantino. E pare, in effetti, di scorgere più di una strizzatina d’occhio, nella scelta di un layout parossistico, che nell’eccesso dissacrante raggiunge dimensioni di autentica autoironia. O nei dialoghi assurdi, lunghissimi, avvitati su se stessi, che ricordano quelli indimenticabili delle Iene (1992) e di Pulp Fiction (1994). Unica pecca la durata, le oltre tre ore paiono troppe: venti minuti in meno non ne avrebbero intaccato i pregi, anzi. Da non perdere.