Regia: Wes Anderson
Anno: 2014
E’ possibile parlare di amicizia, perdita, solitudine e addirittura toccare tematiche come razzismo e guerra, senza sfociare nel consueto laterizio cinematografico, preferibilmente in black&white, di molte, interminabili e struggenti ore?
Sì, è possibile. Wes Anderson l’ha fatto.
Il Gran Budapest Hotel è un’importante istituzione, il fulcro della repubblica di Zubrowka: collocato sulla cima di una montagna, l’albergo ospita la crème mitteleuropea degli anni 30. Protagonista indiscusso della struttura è Monsieur Gustave (Ralph Fiennes), il concierge, il dongiovanni, il faro in mezzo alla tempesta, l’uomo al posto giusto nel momento giusto. Nella sua ombra vive il lobby boy, Zero Moustafa (Tony Revolori), garzoncello inesperto, ma sveglio e desideroso di imparare il mestiere del suo mentore.
La passione di Gustave per le clienti dell’hotel, anche le più anziane, lo porta a intessere una relazione con l’ottuagenaria Madame Céline Villeneuve Desgoffe-und-Taxis, detta Madame D (un’irriconoscibile Tilda Swinton). Poco tempo dopo la partenza di Madame D dal Grand Budapest, Gustave viene informato della sua morte e della cospicua eredità lasciatagli dalla donna. Inizia così una rocambolesca fuga del concierge, con Zero al seguito, per sottrarsi al furore omicida dei figli dell’anziana signora. All’orizzonte si intravede l’inizio della seconda guerra mondiale, il nazismo, le SS (che diventano ZZ).
La vicenda viene narrata da Zero Moustafa, ormai vecchio (interpretato da F. Murray Abraham), che in un momento di rara apertura, confida le sue avventure ad uno scrittore cliente dell’hotel (Jude Law), il quale, a sua volta, porterà in giro questa incredibile storia.
Presentato alla 64^ edizione del Festival Internazionale del cinema di Berlino, The Grand Budapest Hotel è una lieve ma appassionata “favola” vintage e dal sapore agrodolce, come gran parte dei prodotti del regista texano. Un racconto di guerra, non solo, ma anche: prima dal punto di vista di chi la guerra non l’ha vissuta che al suo inizio, quando tutto sembrava distante e non realmente pericoloso, poi attraverso gli occhi di chi ne ha subito le conseguenze nel tempo, in termini di lutti e solitudine. E’ anche il racconto di una vita, quella di Zero Moustafa, da ingenuo garzone ad anziano ricco e malinconico. Manca ciò che sta in mezzo, ciò che normalmente si predilige raccontare nelle vicende tragiche. Ma questa, appunto, non è una tragedia: è tutto ciò che vi sta attorno.
I personaggi ricordano un po’ gli eroi del cinema muto (quelli di Charlie Chaplin e Buster Keaton, per intenderci), sempre sopra le righe, spumeggianti e comici, ma con un’ironia amara che richiama un contesto che non sempre è dei più rosei. Ironici e amari come i dialoghi surreali tra Gustave e Moustafa, che durante gli inseguimenti, si fermano spesso a declamare poesie, a fare il punto sulla loro amicizia e a profumarsi con la colonia preferita del concierge, mentre alle spalle divampa la guerra.
Sotto la superficie naif emerge quella cura del dettaglio e il rigore strutturale ai quali Anderson ha già precedentemente abituato il suo pubblico (I Tenenbaum, 2001, Il treno per il Darjeeling, 2007 e l’ultimo Moonrise Kingdom, 2012). Una struttura a matrioska che coinvolge situazioni e personaggi tanti, tempi diversi e spazi distanti. La macchina da presa scorre, salta, rotola, si intreccia ai movimenti dei personaggi con rapidità e precisione matematica. Tutto questo immerso nella più vasta gamma cromatica. Sì, questo è il film del colore, e decisamente Anderson non ha risparmiato la tavolozza: si passa dalle tinte pastello della facciata del GB ai rossi laccati degli interni, dal viola saturo delle divise alberghiere al grigio delle uniformi militari, al nero lucido degli abiti degli antagonisti.
Merita due parole il cast davvero strepitoso: oltre ai personaggi principali già citati, la pellicola spara fuori le più grandi personalità del panorama cinematografico statunitense e non. Solo per citarne alcuni, ritroviamo gli attori feticcio di Anderson (Adrien Brody, Bill Murray e Jason Schwartzman), ma anche numerose new entries della levatura di Mathieu Amalric (lo strepitoso protagonista di Venere in pelliccia, Roman Polański, 2013), Jeff Goldblum (La mosca, David Cronenberg, 1986), Léa Seydoux (La vita di Adele, Abdellatif Kechiche, 2013) e uno spaventoso William Dafoe (ora nelle sale con Nymphomaniac di Lars Von Trier), che anche senza make-up sarebbe stato inquietante a sufficienza. Insomma, un potpourri di nomi che spesso compaiono solo per brevi momenti a completamento del mosaico.
Nel pubblico si ride, si partecipa con animo scanzonato e sognante, ma in sottofondo scorre, insieme alla splendida colonna sonora di Alexandre Desplat, un senso di nostalgia per il tempo che fu. E come sempre accade nei ricordi, il passato sembra più luminoso e colorato di quello che è stato in realtà.