Regia: Richard Glatzer e Wash Westmoreland
Anno: 2014
E’ difficile trovare film che abbiano la capacità di portarti a fare un’analisi di te stesso, di permetterti di fare alcuni passi nella pellicola e guardarti dentro nello stesso momento. E’ questo che “Still Alice” nella sua voluta patinatura fuori fuoco provoca nello spettatore.
Una trama apparentemente semplice: una donna di successo che insegna Linguistica alla Columbia University, con una famiglia meravigliosa al suo fianco, è vittima dell’avvento prematuro di una rara forma di Alzheimer.
Si poteva risolvere semplicemente un soggetto del genere, ma il lavoro di Richard Glatzer e Wash Westmoreland attesta tutt’altro. Complice di una sceneggiatura non originale sviluppata a partire dal romanzo omonimo del 2007 di Lisa Genova, la pellicola mostra il deterioramento di una Julianne Moore esemplare che scava nel suo personaggio e riesce a rendere perfettamente il dolore e la forza che comporta una malattia del genere.
Il lavoro della coppia Glatzer/Westmoreland è evidente sin dall’inizio. Il mondo in cui vogliono accoglierci è palese già dai primi fotogrammi: la scelta di utilizzare fade in/out attesta la volontà di concentrarsi su una realtà che è confusa e tende a scemare lungo la storia, ciò reso alla perfezione tramite fuori fuoco significativi che incoraggiano lo spettatore, tentennante, ad identificarsi con Alice Howland, a mettersi nei suoi difficili panni. Ci riescono davvero.
La storia si concentra inizialmente sulla descrizione della protagonista, sulla pittura del suo ritratto, lo stesso che in poco tempo risulterà scorticato e rovinato dalle circostanze. Alla scoperta dell’incurabile male, la situazione cambia totalmente, dal punto di vista della vicenda, ma soprattutto dal nostro, quello degli spettatori. Inevitabilmente, il pubblico diventa vittima dell’Alzheimer; anche grazie alla richiesta del dottore ad Alice nel ricordare un nome ed un indirizzo pronunciati all’inizio della conversazione, elemento geniale che ci spalanca la porta d’ingresso nel film. Dunque, ci troviamo in un lungometraggio totalmente in soggettiva, poiché lo spettatore diventa Alice.
Conduciamo così la lotta della protagonista contro un nemico più forte di lei, e seguiamo intorno a lei le reazioni dei suoi cari.
Importante elemento aggiuntivo è la tecnologia: sviluppandosi nella nostra contemporaneità, il film delega a cellulari o computer mansioni significative; Alice utilizza un gioco di parole del suo Iphone come mezzo per mantenere la mente lucida, come se stesse simulando una partita contro la sua malattia. Ancora di più, nel suo computer vede l’ancora di salvezza futura che non si rivelerà tale, però darà vita ad un’importante scena, esemplare nell’interpretazione e anche dal punto di vista registico. Quando Alice guarda il video che aveva creato, ancora sana, per il momento in cui la malattia l’avrebbe divorata, ci troviamo di fronte al riassunto dell’intera storia e alla testimonianza della bravura di Julianne Moore: due Alice distinte, opposte che si guardano negli occhi ma che non si riconoscono e che mostrano il cuore dell’Alzheimer, la sua prepotente forza distruttiva che silenziosamente distrugge; la Moore è magistrale nella sua sottomissione alla malattia, totalmente reale.
Oltre a regia e sceneggiatura, la fotografia gioca un importante ruolo nella pellicola, affidandosi perciò a Denis Lenoir, grande collaboratore di Assayas.
La storia guarda tramite gli occhi appannati di Alice i personaggi che la circondano, la sua famiglia; ma, già dalle prime scene è rintracciabile la figura di Lydia, indossata da Kristen Stewart, che segnerà inconsapevolmente la vicenda della madre. Lei, come chi la circonda e come noi spettatori, inizialmente guarda da lontano l’amaro abbraccio che l’Alzheimer riserva alla madre; per poi identificarsi in lei risultando l’unica capace di capirla nel profondo e di accompagnarla fino al termine del film. La Stewart è prima pubblico e poi protagonista, esattamente come noi. Nella sua diversità e opposizione alla famiglia, resterà l’unica mano a cui si affida Alice, curandola attraverso l’arte drammatica e ricordandole a gesti tanto quanto a parole che l’amore permane.
La Stewart procede la sua ascesa, dopo un’impeccabile interpretazione nel recente “Sils Maria” di Olivier Assayas, e convince nelle sue nuove vesti in film nettamente più impegnativi della celebre saga che l’ha fatta conoscere.
Il film confonde, corrode e viaggia dentro Alice. E pian piano anche dentro di noi. La richiesta del dottore ci paralizza e ci fa entrare in questo mondo a cui lontanamente penseremmo, ma che esiste, può esistere. Proiettandoci nella protagonista, viviamo con lei la sofferenza, le difficoltà, capiamo che “noi non siamo la nostra malattia” perciò lottiamo con lei; per un attimo ci sorge il dubbio di esserne affetti davvero anche noi, ma scompare lontano in dissolvenza. E’ questo che deve produrre nello spettatore un film del genere, talmente intenso e impegnativo.
E “Still Alice” ci riesce perfettamente.
La patinatura fuori fuoco che ci ha accolto scompare nella conclusione. Alice ha vinto il gioco di parole contro l’Alzheimer; e la parola che ha trovato è Amore. Quello di sua figlia Lydia, quello per la vita per cui lotta, quello che mantiene costante nella sua memoria e che non scompare, come nell’ultima scena.
Tutto si risolve nel bianco, nella chiarezza. E’ ancora Alice.