Regia: J.C. Chandor
Anno: 2013
Al largo di Sumatra, un uomo in viaggio sul suo yacht si trova disperso nell’oceano quando l’imbarcazione cozza contro un grosso container galleggiante, squarciandosi e inabissandosi a poco a poco. Isolato in mezzo al mare, senza mezzi per chiedere aiuto, lotterà per la sopravvivenza tra pericolose tempeste.
Dallo scoppio della “bolla” finanziaria di Margin Call (2012) all’erompere impetuoso delle onde di All Is Lost, J.C. Chandor ha invertito drasticamente la rotta, tenendosi comunque in parallelo con la sua opera prima.
Tanto Margin Call si snodava tra il chiuso degli uffici e dei palazzi del potere finanziario, tanto All Is Lost si disperde in un grande spazio oceanico all’aperto. Se nel primo film abbondavano schermi digitali, grafici, computer, cellulari, qui la tecnologia scompare, finisce sommersa, relitto inutilizzabile.
Tanto l’uno era parlato, discorsivo, anche logorroico, nel tematizzare l’ipertrofia incontrollata dell’astrazione immateriale e del concetto nella realtà economica del default di Wall Street, tanto quest’altro è muto, praticamente privo di battute e dialoghi, lasciato in balìa degli sciabordanti tonfi dell’acqua (la m.d.p. oscilla, sbalza, galleggia). Per restituire peso e sostanza alle dinamiche primigenie tra l’uomo e l’elemento naturale.
Dal lucido discorso sulla Crisi alla messa in crisi del discorso verbale e narrativo, quindi del racconto filmico classico. Per questo All Is Lost è avventura e sfida cinematografica estrema, che imbarca con sé lo spettatore per sballottarlo nella distesa oceanica insieme al suo protagonista (il divo Robert Redford).
Una sfida in qualche modo paragonabile a quella intrapresa da Alfonso Cuaròn con il recente Gravity (2013). Se lì lo spettatore è obbligato a sperimentare in prima persona lo smarrimento, la mancanza di punti fermi e l’angoscia della vertigine percettiva data dall’inconsistente vuoto della voragine spaziale, in All Is Lost accade la stessa cosa tra i gorghi d’acqua dell’oceano.
Aria e acqua, atmosfere e correnti, lo spazio profondo e i fondali marini: due galassie apparentemente infinite, estese a perdita d’occhio, nel quale ci si trova isolati. In entrambi i casi in apnea, impossibilitati a respirare per mancanza di ossigeno. E bloccati, rallentati nei movimenti, a nuotare e galleggiare nel vuoto, dove tutto sembra perduto.
All Is Lost sembra condividere con Gravity anche un percorso metaforico. Per cui il viaggio purificatore (attraversamento, immersione/sospensione e riemersione) dentro l’assenza (in)tangibile dell’acqua/aria diventa parabola di un ritorno alle origini della propria natura e identità. Una sorta di nuova rinascita.
Due immagini chiave stanno lì a dimostrarlo: in Gravity l’astronauta riemerge a riva da una pozza dopo una caduta siderale in navicella, mentre il naufrago di Chandor sprofonda per riaffiorare a galla bagnato da una luce bianca abbacinante.
Quando anche l’esistenza procede alla deriva, ciò che resta sono solo “anima e corpo”, secondo la voice over del protagonista nell’incipit (l’unico frangente parlato). Probabilmente la traccia vocale del messaggio in bottiglia che più tardi affiderà alle correnti. Un lascito all’umanità che si è lasciato alle spalle.
Il protagonista, più che partire (da un luogo definito), scomparire (in un luogo indefinito) e ritornare (al punto di partenza) come in Cast Away (Robert Zemeckis, 2000), diventa il simbolo stesso del naufragare.
Della perdita delle coordinate di lettura del mondo: spaziali, temporali, esistenziali, ma anche delle forme e del linguaggio tradizionale del cinema. Cinema che All Is Lost prova a ricollocare nella vertigine dell’eterno e burrascoso viaggio dell’uomo verso l’ignoto.