Anno: 2014
Nick e Amy, belli, intelligenti e scrittori di successo. Si conoscono per caso una sera ad una festa ed è subito scintilla. Stessi interessi, stesso modo di giocare e di essere complici, fanno dei due la coppia ideale. Almeno finché dura. Perché prima o poi la passione svanisce e il rancore finisce per corrodere anche le più solide famiglie della middle class.
La crisi bussa alla porta di Nick e Amy ben prima del settimo anno. Al quinto, per la precisione, e nel giorno del loro anniversario, quando la donna improvvisamente scompare. Ad opera di chi non si sa, ma le tracce rinvenute in casa non lasciano dubbi: Amy è stata portata via dopo una violenta colluttazione, forse uccisa, ma il cadavere – e conseguentemente il colpevole – tardano ad uscire.
Lo sguardo ebete di Nick si presta perfettamente allo sciacallaggio mediatico che, non avendo altro su cui affondare i denti, scarica sull’uomo il bisogno viscerale di trovare un responsabile. Del resto lui non sembra poi così preoccupato per la scomparsa della moglie, tanto che se ne va in giro a dispensare mesti sorrisi per i selfie delle fan. Non piange, non si dispera e canticchia la sigla di Law & Order quando gli investigatori lo mettono sotto torchio. E lei? Santa subito? Beh, per l’opinione pubblica, sì.
La (doppia) vita matrimoniale viene sezionata da amici, parenti, vicini di casa, polizia, avvocati, televisioni locali e nazionali, con la connivenza dei protagonisti che, al bisogno, manipolano e si fanno manipolare per raggiungere i loro scopi. Scavando a forza nel privato della coppia perfetta, viene fuori che lui è un discreto stronzo. Ma anche lei gareggia.
David Fincher, con la collaborazione di Gillian Flynn (sceneggiatrice e autrice dell’omonimo romanzo), crea una personale summa cinematografica: è un thriller, ma è anche un noir metropolitano con venature da black comedy, è una caduta della famiglia moderna, ma è anche il dramma di una società che perde i propri valori dietro allo schermo di un televisore. E’ un po’ Seven (1995), un po’ Fight Club (1999) e un po’ The Social Network (2010). Buona la prima parte, misurata e ambigua quanto basta, ma dal coup de théatre in poi, la storia scivola in un abisso di perfidia così inverosimile da risultare grottesca.
Niente da recriminare ai due protagonisti: Ben Affleck regge perfettamente il ruolo di marito finto-pesce lesso che non riesce a suscitare la compassione del pubblico (né quello del film, né quello in sala), nemmeno quando le circostanze sono dalla sua parte. Rosamunde Pike è il perfetto prototipo di donna ambigua e perversa, tanto da strappare più di un applauso per il suo essere magnificamente diabolica.
Ma le note dolenti di questo film ci sono e non sono poche. Innanzitutto l’amore bugiardo è un continuo déjà vu di altre ben più riuscite pellicole: Hitchcock in primis, con Marnie (1964), Il Caso Paradine (1947), La donna che visse due volte (1958), tanto per citarne alcuni. Uno schieramento di inganni a due: sul piatto principale una lei bella ed enigmatica e un lui intento a sciogliere intrighi femminili, con contorno di omicidi vari. Anche il cult di Zemeckis, Le verità nascoste (What Lies Beneath, 2000) non tarda a riemergere dai ricordi: questo, forse più efficace in termini di salti sulla sedia, offriva una misteriosa bionda scomparsa e un uomo (Harrison Ford) con analoga espressione mediocre e lontana da ogni sospetto.
Bergman e Bunuel sapevano davvero come fare a pezzi l’istituzione del matrimonio (decisamente meglio di Fincher), in maniera più intimista e quindi più credibile. Ma qui siamo nell’era delle reti sociali, delle tonnare sociali, l’epoca di facebook e del giorno in pretura, e nulla può rimanere a lungo chiuso all’interno di quattro mura. La morale è la stessa, ma la fruizione cambia. L’eccesso stimola il voyerismo e l’interesse esalta l’esagerazione. I protagonisti sono più belli, più intelligenti, più biondi, hanno i denti più bianchi e le gambe più lunghe. Le relazioni sono straordinariamente funzionanti, ma, quando smettono di funzionare, le rotture sono più fragorose. I vicini di casa sono più ficcanaso, i tradimenti più riprovevoli, gli omicidi più sanguinari.
Ne consegue che Fincher abbia voluto partorire un film più film, dove i generi che si intrecciano sono tanti, la struttura è complessa e gli eventi drammatici sono in surplus: il suo è un pubblico moderno, desensibilizzato, esigente e smaliziato, che ha bisogno di partecipare attivamente alla costruzione del sospetto. Un pubblico che davanti ad un Bergman commenterebbe: “Sapessi quante ne ho viste io!”. E che attrazione volete che esercitino oggi una Kim Novak con doppia personalità o una Tippi Hedren affetta da cleptomania? Decisamente non meriterebbero un tweet o un pomeriggio con la D’Urso.
Ma una cosa è certa: per Fincher, quanto per Hitchcock, le bionde possono essere letali.