Regia: Paolo Sorrentino
Anno: 2013
Jep (Tony Servillo) è un critico performativo e scrittore per una rivista d’arte elitaria romana. Trascorre le sue giornate tra sontuose e scatenate feste notturne all’insegna del monotono divertimento alto-borghese. Venuto a sapere della morte del suo primo amore, decide di intraprendere un viaggio tra moralità e ricerca ispiratrice, tra i ricordi e le malinconie di un’esistenza passata a contemplare il Nulla.
Roma fa da perfetta cornice al girovagare di un’uomo che tra segreti silenzi e taglienti rivalorizzazioni di ciò che lo circonda, riscopre ad ogni angolo un motivo che lo convinca a riprendere a scrivere. La ricerca, appunto, della tanto tormentata Grande Bellezza.
Senza ombra di dubbio la difficoltà maggiore una volta iniziata la proiezione, è stata quella di metter da parte tutti i pensieri legati alle gigantesche aspettative ricamate attorno a quella che è stata definita da critici ed appassionati come la seconda Dolce Vita felliniana. Nell’arco di questi ultimi otto/nove mesi se ne sono dette tante di cose: la possibilità di una nuova rivalorizzazione del cinema nostrano a quasi quarant’anni dai registi che la resero indimenticabile, o la comparazione di due attori tanto diversi quanto orgogliosamente significativi per il panorama italiano come Marcello Mastroianni e Tony Servillo; fino allo spocchioso snobbismo dei nostalgici (e ciechi) amanti del regista riminese.
Sorrentino mette in piedi un’opera magistrale dal punto di vista estetico e figurativo. Ambienti e personaggi che al suo interno si muovono come stessero danzando e sensualmente invitando lo spettatore a partecipare ad un girotondo lungo tutta la notte. La perfetta mimesi viene valorizzata da lunghe carrellate che impazzano tra feste notturne e maschere che tanto ricordano la commedia dell’arte.
Giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, si consumano senza lasciar traccia i malinconici momenti di gala e ricercata redenzione etica e morale. Laddove il protagonista, dall’alto dei suoi vuoti ed insignificanti sessantacinque anni, ricerca una motivazione che lo spinga a passare le giornate senza il bisogno che venga la notte, senza il bisogno di sdraiarsi sul letto di casa sognando un tuffo purificatorio nel mare che tanto ha segnato la propria giovinezza.
Le ricorrenti ed inevitabili allusioni al cinema di Federico Fellini, fatto di circensi figure di borgata, si presentano ad ogni angolo quasi come una caccia al tesoro tra i silenzi di una Roma estiva, vuota ed energizzante che ai più avrà ricordato la giornata particolare di Scola (Una Giornata Particolare, 1977). L’architettura della Capitale risplende grazie ad un eccezionale scelta di musiche: polifonia e mono-fonia sacra che intervallano con climax ascendenti e discendenti le lunghe carrellate che accompagnano Jep in questa sua silenziosa ricerca dell’essenziale.
Dopo quanto scritto nelle righe precedenti, è ora però di considerare gli aspetti negativi di questo moderno elogio all’auto-investigazione. Al termine dei nove minuti d’applauso riscossi al Festival di Cannes 2013, urge doveroso chiedersi quanto abbia influito il Sorrentino esteta sul Sorrentino regista.
A differenza de Il Divo (2008), in cui ci si concentra su un personaggio che ha influenzato inevitabilmente il mondo che lo circondava, civile e politico, economico e malavitoso; ne La Grande Bellezza si ha a che fare con un procedimento inverso che a mala pena riesce a ricreare il pensiero dei protagonisti che circondano Jep: vittime dell’indifferenza e dello stravagante esibizionismo pseudo intellettuale.
Sono vittime del mondo che li circonda e di conseguenza intimoriti del poter nuovamente iniziare da capo, giunti ormai alla fine dell’ennesima festa.
Il regista si avvale di un uso di camera strabiliante che lascia attonito lo spettatore, saltando da personaggio a personaggio, con varie carrellate tra esibizionisti, preti ed escort, donne e bambini, teatranti e una Santa che poco lasciano all’immaginazione e la possibilità che ci possa essere qualcosa oltre l’abito. Alla lettura oltre le righe questa volta il regista di Napoli ha preferito la raffinata ed inconsueta messa in scena dell’immagine.
Lo perdoniamo volentieri, e di gran lunga anche.