Regia: Janus Metz Pedersen
Anno: 2017
Abbiamo ancora negli occhi e nel cuore le avvincenti immagini del bellissimo Rush di Ron Howard (2013), dove gare adrenaliniche e rombi di motore facevano da sfondo all’epocale sfida tra due campioni della Formula 1: Niki Lauda e James Hunt. Sulla scia di quel film, Borg McEnroe ripercorre la mitica rivalità di due grandi tennisti sullo scorcio degli anni Settanta, fino al memorabile scontro a Wimbledon nel 1980.
Come Rush, anche Borg McEnroe si concentra sullo studio dei due caratteri: ‘uno freddo e razionale, l’altro nervoso e irascibile. Bjorn Borg (Sverrir Gudnason), fascinoso svedese dagli occhi di ghiaccio, è il tennista gentiluomo già affermato che non perde mai l’autocontrollo; è elegante in campo e attorno a sé ha l’affetto del pubblico e una schiera di giovani fan che lo adorano. John McEnroe (Shia LaBeouf) è invece la scheggia impazzita del tennis, bravo e determinato ma propenso a perdere facilmente le staffe sul campo. Lo scontroso newyorchese, infatti, non ci pensa due volte ad imprecare contro gli arbitri quando la partita non va per il verso giusto ed è incurante della reazione di un pubblico che prova davvero poca simpatia per lui.
Alle spalle di entrambi, un percorso di crescita non sempre facile: se il giovane Borg smaniava per imporsi e vincere a qualunque costo, con atteggiamenti ancora molto lontani dal distacco emotivo acquisito in seguito, il piccolo McEnroe era un bambino su cui incombeva l’ombra di una famiglia ambiziosa (del padre in particolare) che lo voleva sempre e comunque primo per esporlo come un trofeo agli occhi altrui. Un’ombra che segue John anche da adulto, giovane uomo che non riesce a fare i conti con se stesso e fondamentalmente incapace di intrecciare relazioni.
Con diversi salti temporali tra presente e passato senza soluzione di continuità, il film approda al torneo di Wimbledon, dove i due si trovano ad affrontare non solo la sfida per un titolo prestigioso, ma anche tutto il loro vissuto, in una lunga ed estenuante partita, sofferta a colpi di racchetta e tensione emotiva.
Se c’è un rischio in film come questi, è quello di interessare una ristretta cerchia di appassionati sportivi o di nostalgici che quella rivalità l’avevano già seguita ai tempi.
Borg McEnroe, invece, allarga lo spettro d’interesse e si concentra sulla definizione dei caratteri e delle psicologie dei protagonisti, lasciando all’ultima parte le serrate riprese agonistiche, molto verosimili e avvincenti, anche per chi sapeva già come sarebbe andata a finire.
Il risultato è una pellicola ben confezionata, con due attori in stato di grazia per misura recitativa e aderenza ai personaggi ed un Borg sorprendentemente identico all’originale. Sullo sfondo emerge a tratti anche uno spaccato sociale, tra flipper, concerti rock e serate al mitico Studio 54.
Non siamo ai livelli di Rush, dove la regia sapiente e solida di Ron Howard elevava le sfide e le corse automobilistiche a metafora di vita, ma Borg McEnroe segue un suo percorso, che prende avvio lentamente e forse in modo un po’ sfocato, per poi coinvolgere poco alla volta l’interesse dello spettatore.
Il regista danese Janus Metz Pedersen proviene dalla tv ed è qui al suo primo lungometraggio, ben accolto all’ultima Festa del Cinema di Roma, dove ha vinto il premio del pubblico. La sceneggiatura è firmata da uno svedese, Ronnie Sandhal, e sembra preferire Borg, al cui passato e carattere viene dedicata una più ampia indagine. Si veda anche il ruolo che ha nel film Bergelin (Stellan Skarsgard), allenatore e mentore del giovane Borg. La personalità di McEnroe viene invece scandagliata meno e talvolta si ha solo l’impressione di essere davanti ad un rabbioso e arrivista giovane, non fosse per lo sguardo intenso di Shia LaBeouf (Lawless, Nymphomaniac, Fury), che riesce a dare vibranti coloriture umane ad un personaggio a tratti sgradevole.
Nel complesso, tuttavia, nessuna delle due personalità viene resa più accattivante dell’altra e i due campioni con le loro manie, ossessioni e paure non si presentano certo come due assi di simpatia, ma come ambiziosi perfezionisti che vogliono affermarsi e vincere, ognuno seguendo il proprio scopo personale.
In filigrana si legge una Svezia che vuole uscire dall’isolamento tradizionale per proiettarsi sulla scena internazionale ed un’America che vuole imporsi come modello vincente – aggressivo, se necessario – sempre e comunque.
Il film, insomma, vale il prezzo del biglietto, conferma la bravura di attori noti come LaBeouf e Skarsgard e lancia nel cinema americano la carriera dell’ancora poco noto, almeno per noi, Sverrir Gudnason.