Vita di Pi

Regia: Ang Lee
Anno: 2012

Una nave che affonda, una tempesta indomabile, la strenua lotta per la sopravvivenza. Sono questi i classici ingredienti di un film d’avventura o, nella sua accezione più catastrofica, di un distaster movie. E sono anche questi gli ingredienti che Ang Lee (Ragione e Sentimento, 1995, I Segreti di Brokeback Mountain, 2005) utilizza per raccontare una delle storie più strabilianti, più poetiche e più spirituali della sua filmografia.

Il giovane Pi lascia la natia India per raggiungere il Canada, dove la sua famiglia cercherà di ricominciare una nuova vita vendendo gli animali dello zoo che fino a quel momento aveva accudito. La nave, però, subisce un violento naufragio nei pressi della Fossa delle Marianne e con essa affondano, non soltanto tutto l’equipaggio, gran parte degli animali e la famiglia di Pi, ma anche la speranza di riscatto, l’accettazione delle sventure umane o, più semplicemente, la fede in un cammino stabilito. Il giovane si ritrova, così, unico superstite su una vacillante scialuppa di salvataggio dispersa nelle vastità dell’Oceano Pacifico, senza meta né aspettative di sopravvivenza. Ma non è solo. Nella frenesia del disastro, anche la tigre Richard Parker è riuscita a salvarsi salendo sulla zattera di Pi ed è costretta a condividere un tale spazio angusto con qualcuno che per lei potrebbe rappresentare una preda oppure una fonte di salvezza.

Si declina così l’immaginifica avventura di due creature vittime della stessa insensatezza dell’esistenza che, però, proprio nel momento più disorientato della loro vita, sembrano trovare un reciproco percorso di avvicinamento e comprensione che garantirà loro la sopravvivenza in un ambiente ostile. Perché sì, ostile è il mare che ha ucciso la famiglia di Pi, ostile è la tempesta che più volte cerca di affondarli, ostile è un’isola galleggiante sulla quale la vita va di pari passo con la morte. Ma ostile è anche il mondo dal quale Pi si allontana. Vita-di-Pi2Un mondo nel quale la religione sembra non trovare più la forza consolatoria per accudire i suoi figli e in cui la ragione, vacillando di fronte alle pluralità dello spirito, non riesce ad accompagnare l’uomo nella ricerca di senso.

Ang Lee mescola così, in questo capolavoro esotico e visionario, metafisica, positivismo e immaginazione, arricchendo il romanzo di Yann Martel, da cui la storia è tratta, di quella meraviglia e fascinazione spettatoriale che solo il cinema è in grado di creare. L’occhio viene rapito dai cangianti campi lunghi, da iridescenti piano-sequenza; il coinvolgimento è tale da farci sentir parte pulsante di un tutto organico e perfetto, in cui ogni onda, ogni sussulto del mare, ogni tramonto riecheggiano incontrastati nella mente e nei sensi di chi guarda. E siamo tutti Pi, siamo tutti Richard Parker, siamo tutti individui persi nella medesima vastità che oscillano tra lo stupore e la paura, trovandoli entrambi bellissimi. A volte si dimenticano perfino la computer graphic e i luminescenti cromatismi per quanto poco invasivi e mai eccessivi siano. E si dimentica perfino la finzione, l’inganno della macchina da presa perché, come in ogni buona favola che si rispetti, subentra quella confortante sospensione dell’incredulità che rende tutto più veritiero: una tigre nell’oceano, un’isola di lemuri, una scialuppa che resiste alla tempesta.

È una storia universale, una parabola di vita che porta con sé le teogonie indiane, cristiane e musulmane; che inizia con un paradiso terrestre (lo zoo dei genitori di Pi) e prosegue con un’arca in mezzo al diluvio (il naufragio della nave giapponese); per svilupparsi poi nel peregrinare senza meta di un uomo in mare, elemento mitopoietico per eccellenza, e nella sua ricerca della verità, qualunque essa sia. Fede o ragione? Pi, nel senso del matematico Pi greco, o Pi come “piscine”, favolistica origine del nome del protagonista? Avventura incredibile o truce destino di un ragazzo che vede morire i suoi cari e commette un altrettanto efferato omicidio? Ang Lee, offrendo entrambe le versioni, non dà risposta. O forse la riposta vera è che non ce ne sia davvero soltanto una ma che la meraviglia della vita stia proprio nel convivere con entrambe, scegliendo di volta in volta quella che più ci avvicina a un senso completo e totale.

Il debuttante Suraj Sharma ben s’integra all’equilibrio generale dell’opera, collaborando e non subendo il fascino inglobante della pellicola ma offrendo al pubblico una prova attoriale sobria e rispettosa che eguaglia quella di Jamal Malik in The Millionaire (Danny Boyle, 2008). Nella profondità di uno sguardo indiano, nella moderata fragilità di chi recita senza sovraccarico interpretativo, Ang Lee trova terreno fertile per tessere i fili di un racconto di formazione che, tuttavia, è anche racconto di salvezza e destino. Quello che coinvolge chi legge o guarda la storia di Pi, quello che fu a suo tempo di Siddartha-Buddah, Maometto o Gesù, o quello che ogni giorno ci troviamo ad affrontare anche senza essere nel mezzo dell’oceano. Sempre che l’oceano non sia la vita stessa.

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