Le migliori cose del mondo

Regia: Laís Bodanzky
Anno:  2012

Hermano detto Mano (Francisco Miguez) è un 15enne di San Paolo (Brasile). Con il fratello maggiore Pedro (Fiuk), un po’ fricchettone un po’ sturm und drang, vivono in una buona famiglia di intellettuali liberal, e frequentano un buon liceo (privato) della città. La loro vita di adolescenti in formazione è scossa dalla notizia della separazione dei genitori.

Ma la notizia non è la separazione, è la motivazione: il papà Horàcio (José Carlos Machad) dichiara con liberal serenità la sua sopravvenuta omosessualità, si è innamorato di Gustavo (Gustavo Machado). Panico, rifiuto; ma alla fine la vita continua.

Questa l’ossatura della trama, intorno e in mezzo c’è la storia – normalissima –  di un adolescente alle prese con le esperienze tipiche dell’età: amore, amicizia, sesso, prima volta, identità e vergogna, voglia di protagonismo. Non manca nemmeno il guru di riferimento, tutto domestico, incontrato nell’insegnante di chitarra. Un dramma sventato assicura un finale consolatorio: tutto si aggiusta sul sorriso bello e fiducioso di Mano-Miguez.

Il film è un adattamento cinematografico ispirato alla serie di libri Mano, di Gilberto Dimenstein e Heloisa Prieto (ce lo dicono i titoli di coda).

Diretto nel 2010 (As Melhores Coisas do Mundo) da Laís Bodanzky, 43enne regista brasiliana impegnata e pluripremiata nel suo paese per il film Bicho de Sete Cabeças (2011), in Italia è uscito a distanza (è nelle nostre sale dal 18 ottobre).

Nonostante un’apprezzabile delicatezza e sincerità nel tratteggiare i personaggi, la regia non riesce ad imprimere dinamica alla narrazione. Il ritmo è lento e piatto. A tratti le scelte stilistiche sembrano annunciare un’oggettività, discreta e neutra, quasi un verismo documentarista, ben sostenuto dalla fotografia (di Mauro Pinheiro Jr.) che si sofferma sincera sul brufolo adolescenziale e sulle rughe genitoriali. Ma il risultato complessivo non convince: il rischio noia è sempre in agguato in questa pellicola.

Molto, troppo, fugace lo sguardo sul contesto dove tutta la storia ha luogo. Pochissime le inquadrature sugli spazi urbani, per esempio, e poco rappresentative. Il film è girato tutto in interni, con alcuni stilemi di ambientazione anche un po’ datati. Se non fosse per gli smartphone e i blog questi ragazzi potrebbero anche essere vissuti negli anni ’80.

Insomma la storia di Mano e del suo mondo non aggiunge nulla a ciò che si sappia già sull’adoloscenza e sui suoi turbamenti. Si può perdere.

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