La fuga di Martha

La fuga di Martha

Regia: Sean Durkin
Anno: 2011

“Martha Marcy May Marlene”, il titolo originale è una sequela di nomi che spiega esattamente l’andamento del film. Martha è una, eppure tante. Quando una mente va in pezzi, produce infiniti (ed ingestibili) frammenti.

La storia inizia all’interno di una setta. Regole rigide e maschiliste, mascherate da divisione dei ruoli, introducono una realtà che è tranquillità apparente. La stessa che non riesce a nascondere la routine annichilente ed i rituali alienanti.

E’ una sensazione (sgradevole) che arriva chiara e diretta, sin dall’inizio. Prima ancora che si capisca che il nome della protagonista è Martha o Marcy (Elizabeth Olsen, nelle sale anche con Red Lights di Rodrigo Cortes e Peace, Love and Misunderstanding di Bruce Beresford), tutti nomi che iniziano con la lettera M (come Manson). Il suo unico desiderio è quello di fuggire, per lasciarsi alle spalle anni di soprusi, subiti e perpetrati.

Il ricordo pressante delle azioni riprovevoli (e difficili da accettare a livello inconscio) proposte/imposte dal guru della setta, convince Martha a rientrare in contatto con la sorella Lucy (Sarah Paulson, apparsa in un episodio della serie tv Law & Order nel 2010 ed in due episodi di Desperate Housewives nel 2007 e nel 2011) ed a rifugiarsi nella casa sul lago che divide con Ted, l’uomo che sposerà a breve (l’Hugh Dancy che interpretava il giovane medico protagonista di Hysteria, diretto da Tanya Wexler nel 2011) .

Il passato, però, ritorna. Riverbera nella quotidianità come un’eco che non vuole spegnersi.
Ogni scena è vissuta due volte, nella realtà in riva al lago ed all’interno della comunità-setta.
Martha è psicologicamente a cavallo fra due realtà, incatenata a continui flashback che la la risucchiano in un passato paralizzante. Eppure, cerca di affrancarsi disperatamente, riuscendo ad ottenere una libertà che da le vertigini, come tuffarsi nudi da una rupe, in una pozza nera e senza fondo. Per Martha la libertà è una gioia senza suono.

A livello superficiale, la trama del film  ricorda quella di 1Q84, il romanzo che Haruki Murakami ha pubblicato in tre volumi (tra il 2009 ed il 2010), altra storia di una setta che nasconde violenza ed inutile follia, di individui che non sono quello che sembrano e cambi d’identità.

La storia raccontata da Murakami è decisamente più complessa ed articolata di quella raccontata dal regista (nonché sceneggiatore), che però si è aggiudicato il premio alla regia al Sundance Film Festival del 2011.
La fuga di Martha gira intorno ad un unico perno che è la doppiezza.

Le sequenze dedicate alla vita bucolica della comune hippie in cui Martha è cresciuta (incapace di scegliere eppure definita maestra)  è presto sotterrata dalla violenza sessuale rituale, chiamata purificazione, ma che altro non è che l’asservimento e la perdita di individualità in favore dell’accrescimento dell’ego di Patrick, leader carismatico del gruppo (il John Hawkes già visto in qualche puntata della serie tv Lost nel 2010 ed al cinema  con Contagion, diretto da Steven Soderbergh nel 2011), che ha le sembianze, le movenze e la passione per la musica che aveva Charles Manson, ai tempi della comune chiamata The family.

Quella stessa famiglia che si è macchiata di atrocità senza senso (non ultima quella ai danni di Sharon Tate, moglie del regista Roman Polanski, assassinata – insieme ad alcuni amici di famiglia – nella sua villa a Los Angeles). La storia della setta di Manson ha prodotto decine di film, non ultimo Manson Girls, diretto da Susanna Lo, nel 2011.

La fuga di Martha, suggerisce a più riprese che la setta di cui si parla possa essere proprio quella di Manson (anche se è chiaro che il film è ambientato ai giorni nostri e non negli anni ’70).
Eppure resta la sensazione che le due storie coincidano. E’ solo un’impressione, “she’s just a picture, that’s all”, canta Patrick, guardando Martha. Lei non è altro che una fotografia. Un fermo immagine incastrato tra passato e futuro.

Le assurdità di quel passato (reale) ritornano in un presente implacabile che non permette mai di capire se l’angoscia che attanaglia Martha sia dovuta a pura paranoia o meno. La verità è oltre lo schermo, celata dai titoli di coda.