Il lato positivo – Silver Linings Playbook

Regia: David O. Russell
Anno: 2013

Pat, ex insegnante sulla trentina affetto da bipolarismo, abbandona l’ospedale psichiatrico dopo mesi di terapia, deciso a riconquistare sua moglie, non avvicinabile a causa di un’ordinanza restrittiva. Mentre tenta una difficile convivenza coi genitori, fa amicizia con Tiffany, giovane vedova ninfomane che lo convince a fargli da partner in una gara di ballo. In cambio, lei consegnerà le missive che Pat intende scrivere alla consorte. L’incontro delle due solitudini sarà l’occasione per riscoprirsi e sorridere di nuovo alla vita.

Incoraggiati dall’ottimismo del titolo italiano, Il lato positivo didascalico ma efficace (quello inglese fa riferimento all’espressione “every cloud has a silver lining”, usata per indicare una situazione triste che porta comunque qualcosa di buono, come nei risvolti argentati di un fosco nuvolone) non possiamo che guardare ai “lati positivi” del drama–comedy di David O. Russell (ben otto nomination agli ultimi Oscar e un’unica vittoria, quella di Jennifer Lawrence come miglior attrice protagonista).

Il regista parte da un contesto narrativo-sociale in cui vigono opposizioni nette, categorie umane e ferree distinzioni. Normalità e devianza. Benessere psico-fisico e isteria degenerativa. Mite cordialità e violenza aggressiva. Salotti e stanze d’ospedale. Sani di mente e pazzoidi imprevedibili. Donnette promiscue e modelli di virtù.

Il tutto per rovesciare progressivamente le parti in gioco, con il risultato che ogni presunta divisione si rivela falsa, palesemente infondata. In fondo i due protagonisti, il disturbato Pat e la sessualmente bulimica Tiffany, non sono circondati da persone più serene, equilibrate e “normali” di loro.

Anzi, forse quest’ultime stanno addirittura peggio. Solo nascondono accortamente dolori, frustrazioni e sensi di colpa dietro le mura domestiche, invece di farli esplodere condividendoli senza timore come Pat (un tormentato Bradley Cooper) e Tiffany.

Il quadretto è impietoso, imperniato su figure diverse ma ugualmente sofferenti. C’è Ronnie, l’amico di Pat, in apparenza la perfetta incarnazione del sogno americano (bella casa, bella moglie e figlioletta appena nata, un buon lavoro, cene eleganti e larghi sorrisi), in realtà infelice, soffocato dalla routine. Traboccante di rancori e tensioni sfogate in garage a spaccare tutto, con musica heavy-metal sparata nelle orecchie a tutto volume.

Poi c’è Pat senior (ottimo Robert De Niro): patriota orgoglioso e ignorante, padre in crisi, disoccupato e accanito scommettitore. Superstizioso fino alla paranoia e anche più violento del figlio nei suoi scatti d’ira improvvisi. In famiglia c’è anche Dolores, madre di Pat, casalinga repressa, presenza di contorno come gli stuzzichini che prepara per la partita di football della domenica.
E poi Jake, fratello con la testa a posto (si fa per dire…) di Pat. Rozzo clone di affarismo e competitività paterna, avvocato di successo dallo sguardo smarrito con amici imbecilli e gonfi di birra. C’è l’invadente ragazzino che vuole filmare le crisi di Pat con il cellulare, simbolo della malsana curiosità morbosa di un neighbourhood falsamente perbenista. E ancora il (finto) bravo ragazzo della porta accanto. L’avvocato civilista e il poliziotto di quartiere che più che a difendere ordine e onore mirano soltanto a portare a letto la facilona di turno alla prima occasione.

Un tessuto attraversato da crepe, sintomi di un diffuso malessere latente. Una schizofrenia collettiva non ufficialmente diagnosticata (a differenza del disturbo bipolare di Pat), forse perché congenita (ereditaria?) all’ipocrisia suburbana e dunque incurabile.
Servirebbe una terapia di gruppo su scala globale. Il vero dolore è invece anestetizzato. Si punta comodamente il dito contro le incontinenze emotive, le bizze rumorose e i repentini sbalzi umorali dei più sensibili, che disturbano il placido riposo del sogno americano. Un sonno quieto e sereno solo perché narcotizzato, stordito sotto sedativi. Intorpidito finché qualcuno smette di prendere le pillole prescritte, cominciando ad urlare scomode verità in faccia a tutto il quartiere.

Russell, come già in The Fighter (2010), restringe il campo d’azione ad un quartiere-mondo, una gabbia chiusa e totalizzante fatta di casette, stradine alberate e vialetti.
Continua a ritrarre un’umanità sfibrata in interno giorno. Nel chiuso di cucine e salotti domestici, (sovr)affollati di figure ossessionate, aggressive e urlanti, in perenne conflitto. Dove dominano contrasti irrisolti tra genitori e figli, vuoti depressivi e manie possessive (anche se il finale scalda-cuore è parzialmente consolatorio). In fin dei conti, la famiglia di Pat potrebbe idealmente vivere nello stesso quartiere, in una casa dirimpetto a quella della tronfia famiglia matriarcale vista in The Fighter.
Il riscatto giunge sempre da un elemento bizzarro e perturbante (qui Tiffany, in The Fighter la cameriera Charlene), che dall’esterno irrompe a destabilizzare dinamiche familiari castranti, pacchiane e anaffettive, risvegliando la coscienza dell’individuo.

E allora Pat, in tuta da ginnastica e felpa con cappuccio (come il pugile Micky di The Fighter), si lancia in un training esistenziale ed emotivo, rincorrendo vita ed affetti intorno all’isolato. Provando a “riconoscere i segnali” e guardare al lato positivo delle cose. Perché i pazzi, forse, sanno sempre qualcosa in più degli altri.