Il capitale umano

Regia: Paolo Virzì
Anno: 2013

Siamo in Brianza, lo si capisce più che altro da un cartello stradale che indica località Ornate. Qui avviene un brutto incidente: uno sfigato qualunque torna dal lavoro in bicicletta, è gettato fuori strada da un Suv. Una notte con molta nebbia. E comincia il film.

Una storia corale a sfondo un po’ noir, snocciolata con la scappatoia del racconto a capitoli dedicato ognuno ad uno dei personaggi della storia. Niente di originale, un espediente narrativo (più libresco che cinematografico nell’uso che ne fa Virzì) che piano piano ci introduce in una carrellata di tipi umani dell’Italia di oggi, recessiva, dissoluta e amorale. Le frustrazioni di una classe media squallida e rapace, che goffamente insegue l’upperclass (provincialotta di casa nostra), che a sua volta scommette sulla perdita, cioè sullo sfascio del paese, per arricchirsi ancora, fra una partita di tennis e una buona azione. Non manca l’intellettuale di sinistra, ovviamente meridionale, ovviamente ininfluente (nell’azzeccata interpretazione di Luigi Lo Cascio).

Sono tutti cattivi, quasi feroci, sia i belli sia i brutti, sia quelli eleganti sia quelli cafoni. Sono tutti perdenti, anche se alla fine, ognuno a suo modo, vincono tutti.

L’unica luce nella nebbia (simbolica e fisica di questa Italia di Virzì) sono i due giovani Serena e Luca. Si innamorano 4-bentivoglio--golino-e-gifuni-1005508_0x440davvero, la loro è una storia maledetta ma è pura ed emerge dal marcio collettivo. Sono gli unici che pagheranno un prezzo.

Una comedie humaine all’Italiana sottolineata dalla raffigurazione didascalica dei tipi-umani-attori. Fabrizio Bentivoglio sempre bravo (con qualche punta gigionesca) nei panni dell’immobiliarista brianzolo, bonaccione e cafoncello; Fabrizio Gifuni fa il duro, è lo speculatore, regge diligentemente il ruolo senza eccessi; Valeria Golino, un po’ defilata, è la psicologa che “lavora in una struttura pubblica“, non poteva mancare. E poi c’è Valeria Bruni Tedeschi, l’aristocratica moglie del duro, attrice decaduta, malinconica e flebile fin dalla voce. Va detto senza un pizzico di sorpresa – è l’unico personaggio del film che va oltre lo stereotipo. Un’interpretazione convincente ed elegante che ben traduce il senso del suo ruolo: coscienza critica del dramma, di cui è insieme vittima e carnefice.

Paolo Virzì, regista nostrano fecondo e simpatico, dirige un film che è soprattutto un racconto. Punta tutto sul soggetto e sul messaggio morale che si porta dietro. Ma dimentica il resto. Nessuna apprezzabile soluzione formale, una gestione disattenta della fotografia e del montaggio rendono quest’opera piatta e senza sorprese. Avrebbe potuto essere una fiction televisiva. Non sconvolge né travolge. Eppure non lascia indifferente lo spettatore, che sinceramente o di nascosto si specchia in quel pezzo di sé collettivo. Dopo tutto gli appartiene, anche quando non abita in Brianza.