Holy Motors

Regia: Leos Carax
Anno: 2012

Un distinto banchiere esce di casa di buon mattino. Saluta l’autista e monta in limousine, pronto a una giornata fitta di appuntamenti. Banale routine. Finché l’uomo, uscito dall’auto, assume le fattezze di una vecchia mendicante. Poi, inspiegabilmente, muterà di volta in volta in performer virtuale, freak delle fogne, padre in crisi, musicista, assassino e vecchio morente. In viaggio al termine della notte in un crescendo di nonsense impazzito ed esplosioni surreali.

Dopo aver stregato le platee al Festival di Cannes 2012 e nell’ultimo Torino Film Festival, approda in sala, distribuito in sole quindici copie, il “caso” cinematografico della passata stagione: Holy Motors del visionario talento francese Leos Carax (Gli amanti del Pont-Neuf, “Les amants du Pont-Neuf”, 1991).

Film-limite, follia sperimentale, cinema puro, irrazionale, visione-evento. Holy Motors è stato definito in tanti modi. Ovunque sia stato ha mosso reazioni viscerali, stupite, eccessive. In effetti, è un’esperienza che lascia esterrefatti. Si è così fin troppo abusato del termine “onirico” per descrivere la natura irreale e schizofrenica dell’opera di Carax.

Ma davvero si tratta di un film completamente onirico? Di uno stralunato flusso di (in)coscienza sognante? Provocatoriamente, diciamo di no. O almeno, non in maniera totale. Non se accettiamo il termine “onirico” in senso strettamente etimologico.

Perché a ben guardare, qui si parla soprattutto di risvegli. Del ridestarsi dal sonno e da un torpore vegetativo. Del ritorno a una coscienza vigile, del recupero di facoltà percettive assopite. Quelle dello spettatore contemporaneo.

Nell’incipit, è il regista in persona a svegliarsi/ci, vagando a tentoni per la stanza da letto. D’un tratto si ferma, spinge contro la parete, scopre un varco aperto. Subito vi si infila, sbucando nella galleria di un cinema, sopra un parterre di spettatori muti e immobili(zzati), scuri volti senza occhi.

È l’invito a rimanere lucidi e consapevoli, quando si oltrepassa il portale d’accesso all’allucinazione filmica. Paradossalmente, il sogno-cinema più schiudersi solo al momento del risveglio. Lo stesso protagonista non fa che appisolarsi e ridestarsi più volte, tra un ruolo/travestimento e l’altro.

Ogni risveglio è l’occasione per rientrare, sotto nuove forme, nel regime di rappresentazione perenne da lui incarnato, che riflette la dialettica goffmanniana di ribalta (l’esterno) e retroscena (l’interno della limousine).

Il senso dei vari camuffamenti è allora quello di (tra)sfigurare lo statuto, l’ontologia dell’immagine. Anzi, di tutte le immagini prodotte dall’era del digitale e dell’immateriale. Per portarne alla luce il tragico vuoto di consistenza e verità. La dipendenza intontita e l’indifferenza pietrificata (gli spettatori dell’incipit) che queste producono nel pubblico (“E se non c’è più nessuno a guardare?” è una delle domande del film).

Carax svilisce il processo di creazione dell’immagine-simulacro. Nella sua versione artigianale, con il trucco materico e rugoso del make-up facciale (l’assassino che accoltella il suo doppio e lo “modifica” fino a renderlo identico a sè, finendo a sua volta ferito dal sosia, in un cortocircuito di persone/facce/maschere indistinguibili. Chi dei due ritorna alla limousine? L’originale o la copia? Ma ha ancora senso distinguere?).

Nella sua variante tecnologico-digitale, con la performance sessuale in motion capture, finta, sterile, frustrata. Un impossibile coito interrotto, simbolo della fredda assenza del simulacro nel momento stesso in cui esso produce la sua epifania.

Poi si deturpa l’immagine fotografica, l’icona fashion femminile. Con il repellente uomo delle fogne che invade il set funerario sporcando la bellezza statuaria della modella.

Carax così, si espone inevitabilmente alla vendetta. Le figure del film gli si rivoltano contro. L’immagine virtuale si prende la rivincita, affermando la sua piena autonomia.

“Uccidendo” il referente concreto e umano (?) da cui scaturisce. Nella sequenza in cui il protagonista incappucciato, ennesimo avatar, elimina la prima versione di se stesso, il modello-base da cui tutto ha preso avvio (il banchiere).

Nel complesso, è in gioco il destino dell’immagine cinematografica in senso lato. Indossate tutte le maschere, consumati tutti i simulacri, come sarà il cinema post-digitale? Per Carax, un silenzioso nulla mortificante, un punto di non-ritorno.

Di qui la necessità del recupero del cinema delle origini e del pre-cinema. Con lo spirito avventuriero e genuino dei pionieri dell’illusione del movimento come Ètienne-Jules Marey (le immagini cronofotografiche in b/n della nuda “macchina umana” impegnata nello sforzo fisico e nel gesto atletico disseminate nel film) e l’inventiva sperimentale delle avanguardie surrealiste (l’omaggio ad Entr’acte di Renè Clair, 1924, mutuato in  spartito per l’intermezzo musicale delle filarmoniche, i riferimenti a La bella e la bestia, “La belle et la bête”, 1946, di Jean Cocteau).

Cinema che deve tornare ad essere corpo-movimento, sfaldamento dello spazio e del tempo, brivido cinetico e  “vertigine percettiva, come quella che dice di aver provato il protagonista dopo la corsa di fronte al green screen.

Altrimenti, anche l’uomo/cineasta più tecnologizzato torna ad essere un primate scimmiesco, guidato da macchine che straparlano pettegole in un parcheggio.

Imperdibile.