Grand Piano

grand piano 1Regia: Eugenio Mira
Anno: 2013

Il film di chiusura del trentunesimo Torino Film Festival.

Tom Selznick, uno dei migliori pianisti viventi, torna ad esibirsi in pubblico dopo cinque anni di assenza dalle scene. Durante il concerto, scopre tra gli spartiti un messaggio inquietante: “Suona una nota sbagliata e morirai”. Per Tom è l’inizio di un incubo e di una folle sfida al proprio talento.

Paura in palcoscenico. La stage fright che blocca lo stomaco e malmena i nervi di Tom (Elijah Wood) è doppia: dopo l’ansia di entrare in scena, il terrore di non poterne più uscire vivo.

Suspence o sorpresa in questo tesissimo e imprevedibile thriller che non dà respiro e non concede pause, come La Cinquette, quel pezzo impossibile e sfibrante da riprodurre al pianoforte?

Lo spagnolo Eugenio Mira sembra inizialmente guardare a Hitchcock (unità di tempo, luogo ed “emozione” come ne Il delitto perfetto, “Dial M For Murder“, 1953, la “chiave” del mistero, in senso letterale, come nel succitato film ma anche in Notorius, 1946). In particolare, a quel finale de L’uomo che sapeva troppo (“The Man Who Knew Too Much“, 1934 la versione inglese, 1956 quella versione americana) dove lo spettatore sa che tra le file del pubblico dell’opera si nasconde un assassino, pronto a sparare contro l’obiettivo nell’istante preciso in cui si avrà l’unico colpo di piatti della partitura.

Qui nemmeno un colpo si può sbagliare, perché un ingresso in ritardo sul pezzo e subito arriva la stroncatura di un misterioso cecchino. Presto però la suspence hitchcockiana (come faranno il pubblico del teatro, la moglie, il direttore d’orchestra ad accorgersi del pericolo che il pianista corre, di cui solo noi spettatori siamo avvertiti?) lascia spazio alla sorpresa improvvisa.

grand piano 2Il cambio di programma dell’ultimo momento (come Tom quando annuncia l’interpretazione del brano impossibile). La variazione imprevista nello spartito (filmico). L’improvvisazione fulminea e inattesa che scombina i piani del criminale e rompe lo schema narrativo.

Un’esecuzione al pianoforte e un esercizio di stile cinematografico in cui ci si dimentica della tecnica di base. Procedendo sicuri, a mani sciolte, le dita elastiche e la m.d.p. mobile e fluttuante libere di afferrare nell’aria le note e i colpi di scena.

Con virtuosismi registici che assimilano i movimenti di macchina di Brian De Palma: piani sequenza e plongée con cui si vola dal palco in platea, in alto e in basso, sopra e sotto, dai loggioni ai corridoi del backstage. Rotazioni, rovesciamenti, angolazioni storte e le angoscianti panoramiche a 360° intorno al protagonista. Isolato in uno sfondo rossastro, visibile a tutti al centro del palco ma solo e nascosto nella sua trappola mortale, con la minaccia di un omicidio in diretta.

E quel finto split screen (la divisione dello schermo è marcata da un elemento diegetico) con cui il regista nella parte sinistra riprende un’aggressione nel retro di un palchetto. E a destra zooma in avanti sul pianista impegnato nell’esecuzione.

La stessa immagine (preciso omaggio al De Palma di Blow Out, 1981, e alle sue split diopter shots, inquadrature con elementi appartenenti a due scale di campo differenti affiancate come fossero sullo stesso piano, pienamente a fuoco) ci mostra quello che il pubblico vede e al tempo stesso non può vedere.

grand piano 3Perché il pubblico che guarda e ascolta (quello del teatro/film come noi spettatori) in definitiva non conosce lo spartito, dunque non può accorgersi dell’errore di una nota stonata.

Così come non può prevedere, aspettare il momento clou dell’omicidio (o della salvezza) come accadeva in Hitchcock (ascoltando la partitura riproposta più volte nel corso del film, si sapeva perfettamente il momento d’ingresso della nota “assassina”). Nelle parole del regista “la partitura di Grand Piano è la sorella frattale e metalinguistica della stessa Cinquette“, il pezzo da eseguire nel film”.

Da eseguire e da seguire. Ma l’audience, in entrambi i casi, è ignara  e ingannata. “Il pubblico non sa”, come dice Tom rincuorandosi, e forse non potrà mai sapere. Se non attraverso l’occhio mobile  e rigorosamente split del cinema.