Eyes Wide Shut

eyes wide shut

eyes wide shutRegia: Stanley Kubrick
Anno: 1999

New York, alla fine del Novecento. La tranquilla e agiata vita del medico Bill Harford è travolta da un morboso segreto della moglie Alice e dalla scoperta di un oscuro mondo notturno dominato da sesso, violenza, denaro e potere.

Eyes…Wide…Shut…È quest’ossimoro suadente e carico di suggestioni (occhi aperti/spalancati-chiusi/serrati) a contenere già tutta la potenza e l’ambivalenza significante di un’opera “terminale e interminata” (Gianni Canova) come l’ultimo film di Stanley Kubrick (la pellicola uscì postuma negli Usa nel luglio del ’99, a quattro mesi dalla scomparsa dell’autore).

Un guardare ad occhi aperti-chiusi, simultaneamente (già prefigurato in Arancia Meccanica, 1971, nella cura Ludovico di Alex, palpebre sgranate, fisse e dilatate, quindi aperte, eppure immobili, bloccate, incanalate su brutali visioni, quindi chiuse).

È l’atto preposto alla lettura della prospettiva stratificata e polivalente che fa di Eyes Wide Shut la densissima summa teorica, tematica, filosofica e figurativa del cinema di Kubrick. Prospettiva che se contiene un centro e un punto di fuga nelle perfette simmetrie della composizione formale, li nega allo sguardo e alla comprensione del disorientato Bill Harford (Tom Cruise).

L’uomo kubrickiano che qui ha “perso” e non “preso” coscienza (come accadeva invece al compiaciuto drugo Alex) del suo essere bruto animale in preda all’istinto, che ritorna ad essere, nella sue odissee notturne, lì dove è sempre stato (vi dice niente Shining, 1980?).

Al centro di un mortificante teatro di violenza e sessualità disinibita, desideri egoistici e famelici, brama di corpi e sete di dominio. Fuori da ogni falsa morale di equilibrio e felicità coniugale. Secondo quel materialismo laico, lucido e pessimista che guida da sempre la filosofia kubrickiana della Storia (dell’uomo).

All’opera per l’ultima volta in un film che, scevro da ogni sentimentalismo patemico e patetico, “trasuda denaro nella sua impietosa descrizione dei rapporti di classe, di censo, di potere, soprattutto sui poveri e sulle donne e sui loro corpi” (Morandini).

eyes-wide-shut-4Laddove 2001: Odissea nello spazio (1968) è una sineddoche (la parte per il tutto, il volo dell’osso della scimmia per il salto temporale ed evolutivo dell’umanità, la missione del singolo per il destino della specie), Arancia Meccanica un’ultra-violenta e iper-cinetica iperbole pop, Shining e Full Metal Jacket (1987) due analogie sulla discesa nei labirinti della follia e dell’orrore umano, Eyes Wide Shut diviene sinestesia dei sensi (vista e tatto, sonno/sogno e risvegli) e del senso ultimo dell’opera kubrickiana.

Nel mosaico del regista meno letterale, più letterario (quasi ogni film di Kubrick è l’adattamento di un romanzo) e paradossalmente antiretorico di sempre. Dentro una spirale di desideri immaginati e fantasie realizzabili, realizzate. Se non con il (con)tatto, almeno visivamente, come accade al Bill nascosto dalla maschera, quando rivela di aver visto “cose molto interessanti” ad una delle statuarie sacerdotesse del sesso.

“Nessun sogno è mai soltanto un sogno”, sostiene Bill nel finale. E infatti il perverso incubo di Alice (Nicole Kidman), parafrasando Shakespeare, sembra fatto della stessa, stuzzicante e lasciva materia di cui è impregnato il pericoloso peregrinare notturno di Bill.

Sempre segnato dal vivido e accecante colore rosso che lo attende dovunque. Sul limitare delle tentazioni, sulla soglia del tradimento e della corruzione (la porta della casa della prostituta, pareti e luci del Sonata Cafè, interni e tappezzeria del castello, il panno del biliardo di Ziegler). Aspettandolo al varco di un piacere sfrenato ed amorale che si fa beffe delle zuccherose cartoline di Natale e della rassicurante atmosfera buonista dei salotti borghesi (l’appartamento di Bill, sempre bagnato da una placida e morbida luce bluastra).

Dunque, sogno realistico e realtà onirica. Non tanto il “doppio sogno” indicato dal titolo italiano dell’ipnotica e allucinata Traumnovelle (1926) di Arthur Schnitzler, su cui è basata la sceneggiatura. Quanto due figure, due modulazioni dello stesso sogno che si vedono e si riconoscono l’un l’altra in uno specchio, abbracciandosi con trasporto come i corpi nudi di Bill e Alice sulle note seducenti di “Bad bad thing” di Chris Isaac.

eyes wide shut 3Attraverso lo specchio e quel che l’Alice di Kubrick vi trovò (come nel romanzo di Lewis Carroll): il desiderio sessuale e la ricerca del piacere fuori dalle gabbie della fedeltà e del matrimonio.

Uno specchio in cui Alice si riflette guardandosi ad occhi aperti. Mentre il marito la cinge baciandola ad occhi socchiusi: ancora una volta ritornano gli eyes wide shut. A marcare la differenza tra un protagonista impaurito e smarrito, che continuerà a cullarsi nella falsa illusione di ricostruire un amore “per sempre” (il faccia a faccia risolutivo con Alice), e la moglie che ha invece afferrato la natura fugace, libera e libidinosa del sesso.

Riassunta tutta in quel “Fuck” finale, diretto e inaspettato, che apre-chiude gli occhi per sempre al cinema di Kubrick.

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