Educazione siberiana

Educazione siberiana

educazione-siberianaAutore: Nicolai Lilin
Anno: 2009

Ci si possono chiedere molte cose riguardo questo libro. A cominciare dalla questione morale, cioè di quanto sia giusto fare apparire dei criminali come eroi e le loro storie come epopee; in fondo, verrebbe da dire, sono pur sempre criminali. Oppure ci si può chiedere quanto ci sia di autobiografico in questa storia e quanto sia frutto della fantasia dell’autore. Infine si può porre addirittura la questione politica (come è già stato fatto) e domandarsi se questo sia un romanzo reazionario, sovversivo, di destra o di sinistra.

Indubbiamente l’epopea, o se volete, il romanzo criminale è ormai un genere letterario, cinematrografico e televisivo consolidato.

Quello criminale è descritto come un mondo culturale con ritmi, regole e luoghi propri, che vive parallelamente a quello civile. Questa considerazione è forse la premessa da fare per comprendere questo filone e in modo particolare Educazione siberiana. Infatti si potrebbe definire questo romanzo come la descrizione di un luogo fisico e culturale, o come un viaggio grazie al quale, guidati dal protagonista, entriamo in un mondo la cui cultura ci appare dapprima estranea, opprimente e incomprensibile, ma poi, interiorizzandola, arriviamo a capirne la profondità filosofica e l’utilità pratica.

Nicolai, detto Kolima, è un ragazzino che cresce nel quartiere di Fiume Basso, nella città di Bender, in Transnistria, una regione nell’area europea dell’Unione Sovietica in cui, negli anni di Stalin, venivano deportati criminali da ogni parte della nazione.
Nel romanzo i personaggi più anziani raccontano spesso ai giovani, storie della Russia stalinista.

«Boriska se lo ricordava ancora quel lungo viaggio.  I treni – diceva – sostavano a lungo sui binari […]. A volte capitavano vicini due treni che andavano in direzioni opposte, su uno c’era la gente della parte europea dell’URSS che veniva mandata in Siberia, e sull’altro il contrario. Lui sentiva gridare da un treno: – Oddio, ci portano in Siberia, fa troppo freddo lì, moriremo tutti! –
E dall’altro treno rispondere:
– Oh Cristo, ci mandano in Europa, niente boschi, solo colline vuote, moriremo di fame -».

In Transnistria si formarono comunità di criminali provenienti da tutta l’URSS: Moldavi, Siberiani, Georgiani, Armeni ecc.

Kolima cresce nella comunità siberiana. Il racconti della sua vita, che formano l’intreccio del romanzo, si svolgono tra gli anni Ottanta e Novanta, quando lui era un adolescente. La comunità criminale adotta un rigido codice etico che l’autore  ci spiega attraverso le vicende narrate, in maniera molto più particolareggiata, profonda e verosimile di quanto faccia il film omonimo: Educazione siberiana.

Il codice ha radici profonde nella storia criminale siberiana e viene tramandato di generazione in generazione, dagli anziani ai giovani, un rapporto privilegiato questo, che trascende i legami di parentela, plasmando l’intera comunità come un’unica grande famiglia. Tutti gli anziani vengono rispettati in modo quasi sacro, tutti loro vengono chiamati dai più giovani nonno o zio, che ci sia o meno un legame biologico di parentela, la comunità nel suo insieme è più importante della famiglia singola, che pure ha una importanza fondamentale, specie nel culto della madre e delle donne in genere.

«Secondo la legge criminale siberiana, ogni criminale attivo può rinunciare ai suoi incarichi e ritirarsi […]. A quel punto lui non ha più possibilità di usare il suo nome o di dire la sua parola su questioni legate agli affari criminali. La comunità criminale lo sostiene dandogli da vivere, in cambio lui assume l’incarico di educare i giovani. Diventa, come si è detto, nonno: un nome che gli si dà in segno di grande rispetto».

Alcuni riti di passaggio dei giovani devono anzi essere catalizzati e posti in atto da adulti o anziani che non facciano parte della famiglia biologica del ragazzo.

«La picca, così viene chiamata la storica arma dei criminali siberiani, è un coltello a scatto con una lama lunga e sottile, ed è legato a molte usanze e cerimonie tradizionali della nostra comunità criminale.
Una picca non si può comprare o avere per propria volontà, si deve meritare.
Ogni criminale giovane può ricevere una picca da un criminale adulto, purché non sia un parente».

Il codice, vero protagonista, è presente in tutti i momenti della vita dei membri della comunità attraverso ritualizzazioni che permettono di interiorizzarlo. Esso è fatto di ferree regole di comportamento e possiede una forte connotazione religiosa di orientamento ortodosso condita da tante superstizioni popolari.

Kolima ci proietta in un mondo duro fatto di ragazzini disadattati che sniffano colla fino a uccidersi, che si drogano, che si picchiano, che si accoltellano e si sparano, di poliziotti corrotti che stringono patti con i criminali, che torturano, sparano a vista, stuprano donne e ragazzini, di organizzazioni criminali divise per quartieri e di clan criminali al cui interno vigono, come uniche regole, dinamiche di sopraffazione, sadismo, sottomissione dei più deboli ai più forti, cattiveria fine a sé stessa e prevaricazioni di ogni tipo.

Il codice invece, fatto di rispetto per la vita (tranne quella di poliziotti, usurai, governativi e traditori) e di fratellanza, rafforzata dal credo mistico e religioso, fa dei Siberiani una grande famiglia unita in cui ognuno fin da piccolo impara a conoscere e a vivere secondo regole di ispirazione teorico-morale ma che, attualizzate giorno per giorno in uno stile di vita ritualizzato, permettono al singolo di sopravvivere dove altri soccomberebbero, e all’intera comunità di preservarsi.

«[Nel carcere minorile] noi siberiani avevamo fatto amicizia con la famiglia armena. Gli armeni li conoscevamo da sempre, tra le nostre comunità esisteva un buon rapporto e ci somigliavamo in molte cose. Avevamo fatto un patto con loro: nel caso scoppiasse un grosso casino ci saremmo sostenuti a vicenda. Così il potere delle nostre comunità era aumentato. […] Ci tenevamo lontani dalla gente della Georgia, erano tutti sostenitori di Seme nero. Ognuno di loro voleva a tutti i costi diventare un’autorità. I georgiani che ho conosciuto lì non sapevano niente della vera amicizia o della fratellanza, vivevano insieme odiandosi l’un l’altro e cercando di fregare tutti, renderli loro schiavi […], e grazie a una politica di terrore tenevano sotto controllo il resto dei detenuti […], li maltrattavano, li torturavano per piacere sadico e commettevano su di loro violenze sessuali. […] Nelle celle dove non erano presenti famiglie forti, e la maggioranza dei ragazzi erano completamente lasciati a sé stessi, li violentavano in gruppo.
[…] Dopo cena si sono presentati da noi quindici Ladrini [così si chiamano i sostenitori minorenni di Seme nero], dicendo che dovevamo consegnargli Dente Canino, perché lo aspettava una punizione per aver offeso un criminale onesto. Siccome la nostra idea di onestà era molto diversa dalla loro, nessuno di noi ha pensato neanche per un secondo di lasciare un nostro fratello nelle loro mani. Senza rispondere niente ci siamo buttati su di loro e abbiamo fatto un macello. Il ragazzo più grande tra noi, Kerja, che era un puro nativo siberiano, ha staccato con i denti un pezzo d’orecchio a uno di loro, e davanti a tutti lo ha masticato e ingoiato. Abbiamo costretto diciotto persone in una volta sola a chiedere il trasferimento».

Ebbene, questo libro è sicuramente un pugno nello stomaco ad ogni pagina che si sfoglia, ma accanto a episodi tremendamente violenti trovano spazio grandi momenti di felicità assoluta e tristezza interiore, dialoghi divertenti e profondi, descrizioni di paesaggi, di uomini, donne, cibi e tatuaggi, che fanno da contrasto alla durezza del mondo in cui vive Kolima.
Niente a che vedere col film, che invece sembra pescare solo in superficie, a cominciare dai volti dei personaggi, decisamente troppo puliti, per finire con la violenza che viene solo accennata, e che invece nel libro ha sicuramente una parte centrale e serve a comprendere ancora meglio il valore del codice, dell’educazione.

La cultura del tatuaggio è stata evidenziata anche nella trasposizione sul grande schermo, tuttavia va sottolineato che il nome del vecchio tatuatore nel libro non è Ink (“inchiostro”), i criminali Siberiani odiano la cultura americana, ma è invece nonno Lesa.

Il film forse non valorizza a pieno la doppia valenza ermeneutica del tatuaggio, da una parte quella estetica e fenomenologica, che riassume simbolizzandolo, il vissuto di un uomo, dall’altra l’utilità pratica di poter codificare messaggi tra criminali.

Questo libro e il suo autore sono stati accusati di fascismo, forse, per l’esaltazione eroica e avventurosa delle risse tra giovani, o forse per i rituali guerrieri che vi sono descritti, e per il loro legame con i concetti di appartenenza e fedeltà. Più probabilmente per via della presentazione del libro in un’associazione neo-fascista, per cui sembra che Nicolai Lilin abbia persino ricevuto minacce.

Nicolai Lilin è anche accusato di aver inventato buona parte delle storie che ha raccontato nel libro e perfino di non averlo scritto lui stesso. Di queste polemiche il web è stracolmo.
Considerarlo un libro appassionante, probabilmente è la soluzione migliore, anche se in effetti, pensare che sia autobiografico aggiunge un pizzico di pathos.

Un libro da leggere ma all’annoso quesito se sia meglio vedere prima il film o leggere prima il libro, risponderei: la prima. Volendo fare entrambe le cose, meglio vedere prima il film e poi leggere il libro, in modo da avere, per così dire, un’esperienza in progressione piuttosto che una delusione.